Percezione e azione. Come entrano in campo quando ci si prepara a battere un rigore? Di questo e di molto altro si è parlato nel convegno “Neuroscienze e sport. Il calcio di rigore allo specchio”, ospitato in Cattolica, nella sede di Milano.
«Il nostro è un tentativo – spiega da subito Alessandro Antonietti, ordinario di psicologia generale – di far interagire psicologi, neuropsichiatri e sportivi sui temi del comportamento agonistico e, in particolare, sul gioco del calcio». Qui, infatti, si parla proprio di questo: come gestire le emozioni nei momenti più critici dell’attività agonistica? Quanto, in quegli attimi, conta il supporto fisico e quanto, invece, l’aspetto psicologico? Prendendo ad esempio il calcio di rigore si può già scrivere un’enciclopedia.
Paolo Pascolo, docente di bioingegneria industriale all’università di Udine, ha al suo attivo decine di studi su rigori, punizioni e fuori gioco. Per spiegare l’intreccio tra percezione e azione si avvale di statistiche e percentuali, della descrizione di tutti i movimenti del corpo e analizza anche i diversi tempi di reazione assunti dai giocatori.
Un buon portiere, per parare il calcio di rigore, dovrebbe seguire alcune regole: innanzitutto ridurre i tempi di reazione, aumentando la propria forza esplosiva. Infatti, la velocità della reazione davanti al calciatore che dal dischetto degli 11 metri sta per tirare in porta è fondamentale. Per questo bisognerebbe allenarsi per migliorare le posture e le simmetrie e, soprattutto, per afferrare l’intenzione dell’avversario. Anche solo spiando le sue espressioni facciali.
Gianpaolo Tosel, giudice sportivo della Lega Calcio della serie A, ha contribuito al convegno, spaziando dall’antropologia alla filosofia: «Nel nostro Paese – spiega Tosel – il calcio ha sempre suscitato un interesse trasversale alle età e alla composizione sociale. Ed è stato così fin dall’antichità. Senza contare che sociologi, antropologi e poeti si sono sbizzarriti a interrogarsi sulle simbologie della palla e della porta». Al di là di tutto, l’importante, in uno sport che, da collettivo, si trasforma in individuale durante il momento del penalty, è dirla (e farla) come la cantò De Gregori: «Ma Nino, non aver paura di sbagliare un calcio di rigore».