di Marco Bonaglia *

Marco Bonaglia, in alto a sinistra con ricci e occhiali, insieme ai colleghi del Late alla Columbia Sette ore di volo, soprattutto per chi non riesce a prendere sonno a una certa altitudine, come il sottoscritto non passano mai, nonostante i film, la colazione, il pranzo, l’atterraggio e i discorsi più assurdi con il vicino di posto. Ma l’arrivo a New York è emozionante, fa dimenticare in fretta l’attesa: che sia attraverso un taxi, un treno o un battello, lo skyline di Manhattan abbaglia per grandiosità e altezza. La speranza di essere selezionato dall’ufficio delle Relazioni Internazionali, la notte prima della pubblicazione della lista dei partecipanti al Late Program Columbia 09, la conferma del mio nome, i viaggi per il visto al consolato. Un’ombra passata, come quella dei grattacieli della Fifth Avenue. Fin dal quartiere Jamaica, il più vicino all’aeroporto JFK possiamo scorgere la parte più alta dell’Empire State Building. Poi, il traffico, taxi gialli che sfrecciano senza paura né ritegno, mille lingue, volti e colori. Non è l’America, è New York City bellezza! Alla 115th Street, il bus si ferma, l’autista cinese ci invita ad abbandonare la nave, ed è il primo contatto con la Columbia University: un viale alberato taglia a metà il campus per gettarsi nella Broadway e, più in là, nell’East River. Con le nostre valigie camminiamo dove ventisei anni fa passeggiava Barack Obama o a pochi passi dal luogo in cui due anni fa il presidente iraniano Ahmadinejad ha tenuto un discorso contestato. Avverto un po’ di stupore per i palazzi e un pizzico di timore del nuovo e del diverso: l’Università Cattolica è lontano settemila miglia di volo, e nulla qui assomiglia a Largo Gemelli.

Starò a New York per quasi un mese, un tempo breve ma intenso insieme, per quanto riuscirò a capire, scoprire e amare la città più cosmopolita degli States. Insieme a 29 altri studenti della nostra università, selezionati in base alla media del voto d’esame e ai posti disponibili per facoltà, dormirò nello Shapiro Hall, a cinque minuti dal centro del campus, a dieci dai campi da basket lungo il fiume, la mia passione. Ma a New York non è vacanza, anzi, il vero obbiettivo è migliorare l’inglese, o meglio, l’American English. Diciotto ore di lezione alla settimana sono tenute da insegnanti di ogni tipo, dai capelli e la barba rossi, bionde materne o tifosi degli Yankees. Gli argomenti i più disparati: gli studenti sono stati divisi prima dell’inizio del corso in diversi gruppi in base al risultato di un test on-line: si passa dalla grammatica semplice alla globalizzazione e opere teatrali, dai dialetti dell’americano all’immigrazione. Dobbiamo svolgere i nostri homework e frequentare il corso per ottenere il certificato dell’American Language Program.

Nonostante la tentazione sia di scappare e camminare per Manhattan tutto il giorno, le lezioni consentono di parlare inglese, parlare e parlare. Insegnamento americano: poca teoria, molta pratica e coinvolgimento. Nel campus sono presenti molti italiani, ma anche cinesi, taiwanesi, russi, francesi, peruviani, brasiliani, sud coreani, giapponesi, tedeschi, spagnoli, domenicani. Asiatici ed europei in abbondanza, mondi distanti, oceani riuniti in un’aula da un professore americano che insegna la lingua franca del presente, la lingua del potere, degli affari, della cultura.

Studenti che possono capirsi, scherzare e imparare insieme, condividere esperienze e ambizioni globalizzate. Questa è la forza, il punto importante della mia e nostra esperienza: in un mese, in una cornice fantastica di grattacieli e aree verdi grandi quanto un cittadina lombarda, ho abbandonato la mentalità italiana per quella internazionale, fatta di viaggi, conoscenze, studio e prospettive allargate. Oltre al miglioramento della mia fluency e ad aver appreso che senza inglese non solo, naturalmente, non si sopravvive negli Usa, ma anche in moltissime altre nazioni, l’esperienza alla Columbia University mi ha donato l’entusiasmo del confronto e l’interesse per l’altro, con l’obiettivo di migliorare me stesso.

Allo stesso tempo ho sfruttato le libraries dell’università, grazie a un tesserino personale da mostrare ogni volta all’ingresso delle strutture. La Butler Library, maestosa e classicheggiante dall’esterno, con i nomi di filosofi greci e latini scolpiti nella parete frontale, così ordinata e placida all’interno. Il mio luogo di tranquillità e perversione: la East Asian Library, dotata di quasi un milione di documenti in lingue orientali (sono al primo anno di cinese!). Allo stesso livello delle biblioteche viene messo lo sport, come da tradizione americana. I ragazzi infatti possono giocare a football, soccer e baseball nei prati centrali del campus, frequentare la palestra della Columbia o far parte delle numerose squadre universitarie. Ne ho visti tanti con la palla ovale o il guantone, rotolarsi sul prato o correre veloci.

Infine, spazio al “turismo”. In un mese ho avuto l’occasione di visitare i musei più importanti della città, di percorrere chilometri di strada ogni giorno, osservare solo da lontano il Bronx, emozionarmi a Ground Zero dove tutto è bloccato, scattare fotografie all’immagine cartonata di Ban Ki Moon nella visita guidata ai palazzi dell’Onu. Nella città che non dorme mai.

Il mio obiettivo iniziale è stato raggiunto: sentire il ritmo di New York, esserne trascinato ogni giorno di più fino a farne parte e non lasciarlo mai, come un battito inestinguibile che tormenta il corpo. Così come quello di sentirmi uno studente americano in un’università che si estende per dieci streets al di sopra di Central Park. Prima di partire, mentre osservavo le luci di tutta Manhattan dall’alto dell’Empire, ho fatto una promessa: tornerò in questa città, non so se come studente, turista, girovago o lavoratore. Una cosa è certa: farò di tutto per mantenere la promessa a me stesso. La mia promessa alla città.

* 20 anni, studente del corso di laurea in Scienze linguistiche, curriculum di esperto per le relazioni internazionali, ha partecipato al Late Program Columbia summer 2009