di Laura Minguell Del Lungo *

Questa storia comincia all’aeroporto di Fiumicino, una sera di fine settembre.

“ANDIAMO IN ETIOPIA, VIENI?”. Ero appena tornata dalle vacanze in Madagascar quando mi telefonò Marina Sammartino, anestesista al Policlinico Gemelli di Roma, che da anni si occupa di anestesia pediatrica ed è la responsabile per l’anestesia in Operation Smile: “Andiamo in Etiopia, c’è da organizzare tutto, partiamo tra un mese, vieni?”. Io, stordita e incredula, risposi che certo, sì, volevo partire, era la notizia che aspettavo da più di un anno, ne ero entusiasta. Così cominciava tutto. Per me. Sono partita pensando di sapere cosa fosse la povertà di un popolo, perché l’avevo vista in Madagascar, l’avevo osservata da turista, come si osserva un monumento o un bel paesaggio. Ma della povertà non sapevo quasi nulla. Finché non la si annusa, finché non si immergono in essa le braccia, non si può comprendere la povertà.

LA MISSIONE. C’eravamo tutti: i chirurghi maxillofacciali e il chirurgo plastico, il pediatra, gli anestesisti, un’infermiera, le strumentiste, la logopedista, il fotografo e la coordinatrice. Portavamo con noi molto entusiasmo, gli strumenti di lavoro e borse piene di vestiti e giocattoli. Stava partendo la Missione di Operation Smile “Etiopia 2008”, un’organizzazione che si occupa di curare i bambini affetti da labioschisi (il cosidetto “labbro leporino”), labiopalatoschisi e altre malformazioni facciali nei paesi del Terzo Mondo. Le missioni partono da diverse nazioni, sono composte dalle figure professionali necessarie e sono armate di tutto il materiale indispensabile per allestire la sala operatoria, le sale visita, il reparto postoperatorio. Si arriva a destinazione, ovvero in un ospedale locale, quindi si studia la situazione, si preparano gli ambienti presi in prestito e si comincia a lavorare. A volte le missioni si svolgono in luoghi in cui i nostri normali standard igienici e di sicurezza non esistono, le strutture possono essere carenti, e talora potrebbe non essere facile creare delle condizioni adatte allo svolgimento dell’attività programmata. Nel nostro caso la meta era l’Etiopia, uno dei paesi più poveri del Mondo, con una triste storia di decadenza, uno dei regni più grandiosi dell’antichità mentre ora versa in condizioni terrificanti. Per me, come per altri, era la prima missione.

LA PARTENZA. Con 40 kg di bagaglio a testa siamo arrivati ad Addis Abeba, tra farmaci, vestiti, giocattoli, strumenti chirurgici e di anestesia. Lì abbiamo conosciuto il resto del gruppo composto da persone provenienti da tutto il mondo. Poi siamo partiti alla volta di Axum, sede della missione. Non avevo mai visto un ospedale del Terzo Mondo. I bambini, che avevamo raccolto lungo il percorso dall’albergo all’ospedale ci accompagnarono all’ingresso, dove il loro accesso non era consentito (lo scoprii qualche giorno dopo quando una ragazzina che era entrata con me tenendomi la mano venne presa a calcioni da un guardiano, sotto i nostri occhi allucinati e impotenti). Sembravano dei fanciulli della nostra Italia d’altri tempi, esaltati dall’arrivo del circo o di qualche forestiero particolarmente affascinante. Tutta Axum sapeva che eravamo arrivati, compresi i venditori ambulanti che speravano di farci le penne. I sanitari locali ci accolsero con un misto di diffidenza, cortesia e reverenza. Noi, rimboccateci le maniche, cominciammo l’organizzazione degli spazi e la gestione dei pazienti, che da subito cominciarono ad arrivare per lo screening. Ognuno aveva il suo specifico compito e la sua mansione, sotto la severa e attenta supervisione della caposala australiana.

IL LAVORO. Sono stati per me dei giorni stupendi e intensissimi, stando a contatto con quelle persone, i pazienti e le loro famiglie, semplici e miti; collaborando con professionisti di estrazioni e culture diverse; provando a trasmettere le nostre conoscenze agli operatori locali; parlando tutti un linguaggio comune, pur con le ovvie difficoltà di comunicazione e non senza qualche piccola incomprensione. In pochi giorni abbiamo visitato decine di pazienti: prima il pediatra, che valuta le condizioni generali del bambino, richiede esami ed imposta eventuali terapie; quindi l’anestesista, che effettua la valutazione preoperatoria in sinergia col pediatra, stabilisce la presenza di possibili complicanze perioperatorie o controindicazioni e dà il nulla osta anestesiologico; poi il chirurgo, che pone indicazione all’intervento e imposta la strategia chirurgica più adatta. Infine vengono il logopedista e il dentista, che si occupano rispettivamente dei propri campi, in termini di recupero funzionale postoperatorio. I pazienti che afferiscono in queste occasioni non sempre si presentano con problemi risolvibili dalla missione: si deve decidere chi di loro può essere operato, che tipo di intervento si può fare, che tipo di anestesia è più adatta, eventualmente stabilire la necessità di una terapia o qualche altro provvedimento prima o dopo l’intervento, e magari prestare aiuto materiale, regalando alle famiglie vestiti, giocattoli o altro.

NON SOLO BAMBINI. Non tutti i pazienti sono pediatrici: attratti dalla pubblicità che il gruppo locale di Operation Smile effettua prima dell’arrivo della missione, arrivano persone anche da province lontanissime, magari a piedi o con altri mezzi poverissimi, sperando che questi “medici stranieri”, come per magia, possano far sparire le loro antiche menomazioni. Si tratta quasi sempre di pazienti che non hanno una storia medica alle spalle, persone che non hanno mai ricevuto assistenza sanitaria, di cui non si sa nulla, di cui si riesce a sapere poco a causa delle difficoltà linguistiche. Quando tutti, grandi e piccoli, sono stati visitati, si stila una lista operatoria, da esaurire in 4 o 5 giorni, si stabiliscono i turni di lavoro, si controlla che tutto sia in ordine: sala preoperatoria, la sala operatoria, la sala di risveglio e il reparto postoperatorio. E infatti, terminati allestimento e screening, dopo un pomeriggio di riposo (meritato) in giro per Axum, la mitica capitale del regno di Saba, si aprirono le danze: cominciammo ad operare.

IN SALA OPERATORIA. Dovrei usare troppe pagine per raccontare tutti gli episodi che mi porto nel cuore, per spiegare le emozioni, le sensazioni, i sentimenti. Dodici giorni lunghi come un anno, le ore passate nella sala visita a guardare le gole rosse di quei bambini, ad auscultare i toraci magri magri e palpare gli addomi gonfi di parassiti. A riconoscere sulla pelle di quelle creature la scabbia, le micosi, le pediculosi. A valutare i pazienti senza un esame del sangue, senza consulenze specialistiche, solo i 5 sensi, un fonendoscopio, un otoscopio e l’abbassalingua. E poi aspettare silenziosamente che una ragazza bellissima si spogli dei suoi tre strati di vestiti a dispetto del caldo torrido, vestiti mai lavati, a coprire un corpo mai lavato. E mentre si spoglia, ecco, le casca qualcosa dal fazzoletto che teneva stretto in vita, a mo’ di cintura: timidamente, sperando che nessuno avesse visto, raccoglie l’oggetto, è un pezzo di pane secco, tenuto lì chissà da quanto tempo, dovesse mai servire! Questa è la fame? Lavorare in una sala operatoria con due tavoli al lavoro in contemporanea, le finestre senza infissi, solo una zanzariera bucata che si erge a separare l’intervento chirurgico dalla natura selvatica li fuori. Poi la luce va via: il chirurgo sta operando, il paziente sta dormendo e all’improvviso va via la luce. Ma lì è normale. Come è normale lasciare un bimbo di un anno, con due dita recise da una pietra, in lacrime, urlante disperato, per terra con la sua mamma, fuori dalla sala operatoria in attesa dell’intervento. E’ pietà quella che ha mosso la Dr.ssa Sammartino, la nostra capo anestesista, a somministrare un po’ di morfina a quell’infelice creatura? La famosa pietas latina che rende profondamente umano il nostro agire di medici. E’ stato entusiasmante poter insegnare quattro nozioni a quei due ragazzi che facevano le veci degli anestesisti nell’ospedale: erano due ragazzi giovani, infermieri d’anestesia, non erano medici. E costituivano l’equipe anestesiologica dell’ospedale. Volevano imparare, rendersi utili e collaborare.

Un ‘pazientino’ con la sua mammaI NOSTRI PAZIENTI. Poi c’è stata la gratitudine dei genitori: il nonno di un bimbo  che prometteva che avrebbe pregato per tutti noi per il resto dei suoi giorni; il papà che non smetteva di guardare la foto del suo bimbo prima dell’intervento e confrontarla con quel faccino nuovo, appena confezionato del piccolo che ancora dormiva per effetto dell’anestesia; i sorrisi e gli abbracci di Hiwota, un bimbo meraviglioso di 8 anni, che da 5 anni conviveva con delle orrende e inabilitanti cicatrici da ustione su gran parte del suo corpicino; Hellen, bella e furba, orfana di padre, una “bimba dell’ospedale”, poiché la mamma era ricoverata per AIDS. Sono tantissimi i volti che porto nei miei ricordi, e per ogni volto una grandissima emozione. Di “bimbi dell’ospedale” ce n’erano tanti, con uno o due genitori ricoverati, semplicemente vivevano là. Famiglie intere dormivano su un letto solo. Poveri, sporchi, ignoranti, a stretto contatto l’uno con l’altro, umanità su umanità. E l’odore di quell’umanità non me lo scorderò mai. Il vero olezzo della povertà. Di chi davvero non ha neanche l’acqua per bere. I nostri pazienti erano bimbi speciali, bambini abituati a non dare fastidio, abituati a convivere con la malattia, buoni e silenziosi come i nostri bambini occidentali, puliti ed istruiti, non sapranno essere mai. Poi c’erano tanti ustionati: una ragazza di 33 anni che per 30 ha vissuto con il volto completamente sfigurato da una caduta sul fuoco. E un’altra ragazza, con la tubercolosi, a cui il fuoco aveva tolto l’uso del braccio destro, cresciuto come un ramo storto, deforme e fragile, un moncherino attaccato al corpo.

LA DURA REALTA’. È stato bello poter donare una speranza a queste persone, ognuno nel suo ruolo, grande o piccolo che fosse, tutti abbiamo contribuito. Ma è troppo facile essere portati a pensare che si stia salvando il mondo, che tutto il bene dell’Umanità in quei momenti ci appartenga e si esplichi attraverso i nostri gesti. Non è così, c’è così tanto da fare ad Axum, dove la gente non ha nulla e noi abbiamo tutto. A noi pivelli veniva voglia di spogliarci e dire “Prendetevi tutto quello che ho!”. Per fortuna i missionari più esperti hanno frenato i nostri entusiasmi da buon samaritano! Poi a nostre spese ci siamo accorti che i nostri doni, il nostro elargire, la nostra disponibilità avevano portato il seme della discordia, laddove se nessuno possiede nulla nessun’altro lo invidia. Negli ultimi giorni gruppi di gente cominciarono a starci addosso, perché volevano ottenere più cose, più di quanto già non gliene avessimo date: il personale dell’ospedale voleva più materiale medico, più libri, volevano giocattoli da portare a casa ai propri figli e nipoti; i ragazzi che ci facevano da interpreti volevano tutto, qualsiasi oggetto vedessero o immaginassero; i bambini dell’ospedale volevano essere portati via, tutti ci chiedevano cose, come se le nostre capacità fossero illimitate, come se le nostre valigie contenessero tutti i beni del mondo. Più facevamo regali, e più erano insoddisfatti. L’errore era tutto nostro, che avevamo creduto nel mito del “buon selvaggio”.
La faccia l’ho sbattuta ancora più forte contro la realtà quando, nel momento di andarcene via con i nostri armamentari in mano, abbiamo visto all’ingresso dell’ospedale una donna accovacciata su una panca, e sotto di lei una pozza di sangue che perdeva da un moncherino di un piede. Era tutta sporca di sangue e pallida. Io un nero pallido non l’avevo visto mai. Puzzava di morte; sotto le fasce che coprivano quel piede chissà cosa c’era. Il mio istinto è stato più veloce della mia prudenza e mi ha spinto a stendere subito la paziente, ed arrestare l’emorragia, lanciandomi su di lei per cercare di cambiare in qualche modo il destino di quella persona che, nell’indifferenza generale, si stava lasciando morire. Ma non l’ho cambiato, il suo destino. L’abbiamo lasciata alle cure più o meno adeguate dei locali: per noi la missione era finita, avevamo il volo di ritorno per casa.

RITORNO A CASA. Così i miei ultimi giorni in Etiopia si sono esauriti nell’ansia di venir via da quel luogo così sporco, povero e degradato perché le mie capacità e il mio potere di migliorare la situazione di quelle persone erano limitati. C’è così tanto da fare ad Axum, e di Axum quante ce ne sono nel mondo? Troppe, sicuramente, per me. Così all’esaltazione e l’entusiasmo iniziali si sono sostituiti il senso d’impotenza e il rifiuto di quella realtà così scomoda. Volevo tornare a casa, farmi una doccia calda, riempirmi di creme profumate e avvolgermi nelle lenzuola fresche e pulitissime di casa mia. L’immagine della ragazza col piede monco e la sua pozza di sangue mi ha perseguitato ancora a lungo dopo il ritorno, come un memento: “Axum esiste, l’Africa è così!”. Poi sono passati i mesi ed è subentrata una grande motivazione, nonostante tutto, molto più forte di prima a cambiare questo mondo che non va. Perché la missione cui ho preso parte, io piccolo elemento dell’equipe, ha cambiato la vita a tante persone. A noi ha regalato tanto, tantissimo, un concentrato di esperienza immensa. E sono stati solo 12 giorni della mia vita. Se basta così poco per fare così tanto, un po’ di impegno da parte di tutti potrebbe davvero cambiare un po’ questo mondo.

* Medico Specializzando in Anestesia e Rianimazione, 28 anni, Università Cattolica di Roma