di Elisa Zagni *

Elisa con alcuni bambiniQuando ho deciso di partecipare alle selezioni per il Charity Work Program, avevo tutte le paure e le perplessità di chi intraprende un’avventura “alla cieca”.

«Lo faccio, vero? Massì, è una splendida occasione. Lo faccio. Chissà cosa mangiano in Africa! Oh, andiamo! A vent’anni, un po’ di “incognita” non può che far bene. Oh, quindi non parlano benissimo l’inglese. Beh, imparerò qualche parola in kiswahili! Hanno detto che non bisogna aver paura degli insetti eh?! Ok, me la farò passare, cosa vuoi che sia!»

Frequento la facoltà di Giurisprudenza e del mio corso di laurea amo lo studio dei rapporti e dei legami di consequenzialità tra azione e reazione, la riflessione profonda sul significato del termine “giustizia”, l’approfondimento della tematica dei diritti umani e della loro concreta attuazione in ogni parte del mondo. Inutile spiegare, quindi, fino a che punto l’e-mail con allegato il bando informativo del programma sia stata un covone di fieno per il fuocherello che da anni le lezioni universitarie alimentavano dentro di me. L’agitazione non mancava, ma lo scetticismo del “tanto non mi sceglieranno mai” e quel pizzico di entusiasmo di chi non vede l’ora di scuotere un po’ la propria comoda visione della vita e del diritto nel concreto hanno dettato le parole di quella lettera motivazionale in inglese che il regolamento prevede.

Ero in Tanzania da un paio d’ore quando mi sono resa conto che non si può immaginare, nemmeno lontanamente, cosa ci sia “dall’altra parte del Charity”.
Insetti? Naturalmente, insieme ai babbuini che attraversano la strada, le zebre, gli elefanti e le gazzelle, se hai fortuna.
Inglese? Non con tutti, naturalmente, ma sai quanto ci vuole, con un sorriso, ad imparare che “upendo” significa amore e che “amani” vuol dire pace?
Cibo? Fagioli, verdure, riso. Riso, verdure, riso, fagioli, riso. E ora che sono tornata mi manca tanto una ripetitività che la gioia, la convivialità e le risate non lasciavano mai intravedere.

«Nzungu! Nzungu!»
Queste le prime parole che ho imparato. Mi guardavano, e urlavano «nzungu!».
«Chissà che significa - ripetevo tra me e me - forse “cibo”, o magari è un saluto…cos’altro potrebbero avere da dirmi?»
«Europea! Europea!»
Ecco cosa voleva dire quella strana e cacofonica parola. Europea. E improvvisamente ero io quella diversa, il pesce fuor d’acqua, quella con gli occhi addosso, la ragazza di cui tutti volevano sapere qualcosa.

SElisa Zagni in Tanzaniaono rimasta per una ventina di giorni nella parrocchia di Nyabula, a cinquecento chilometri da Dar. Oltre alla casa del “baba”, il sacerdote, Nyabula vanta la presenza di un asilo, una scuola primaria, una secondaria, una scuola di cucito, una di falegnameria e di un dispensario. A questo punto, immaginate il pullulare di bambini, ragazzi, studenti di ogni età, ognuno con la propria divisa, spesso stracciata o sporca, ma portata con tanta fierezza. I quaderni nei sacchetti del mercato, quelli che hanno ancora l’odore delle banane da cento scellini l’una, o delle carote, senza le quali non si può pensare di far bollire l’acqua per il riso.
Ricordo ancora i primi giorni all’asilo.
Ricordo Neema, la bambina di cinque anni che sa contare fino a dieci in inglese.
Ricordo Angela, l’enfant prodige che ripete con una pronuncia perfetta qualsiasi parola italiana ti venga in mente.
Ricordo Vai, una meraviglia di tre anni che, in segno di rispetto, chiede sempre di appoggiarti entrambe le mani sul capo per darti il “buongiorno”.

Ho nel cuore anche le ore passate nelle “Standard”, le classi della scuola primaria, dalla prima alla settima.
E Valentino, che si pavoneggia perché sicuramente il suo nome italiano gli frutterà la benevolenza delle due nuove English Teachers venute dall’Italia.
E Yasinta, che vuole sempre venire alla lavagna, perché ha capito che si può anche sbagliare, che, se tutti sapessimo già tutto, la scuola non sarebbe tanto divertente.
Ed Escobar, che ha imparato a leggere l’orologio in inglese e trova sempre il modo di ricordarlo ai suoi compagni.

Non si può capire se non lo si prova, perché se dico “bambino”, ognuno di noi pensa a un bambino, che è diverso, per storia, stile di vita o attitudini, da Neema, Vai o Valentino.
Se dico “parrocchia”, nessuno può disegnare nella propria mente la mappa di Nyabula.
Se dico “polvere”, sfido chiunque a trovare le parole per descrivere quanta sabbia sollevi il vento d’Africa.
Per questo è difficile raccontare, rispondere a tutti coloro che, entusiasti, al tuo ritorno ti chiedono: «Allora, com’è andata?»

Come si racconta un tuffo al cuore? Quale aggettivo può descrivere la tenacia dei missionari, la disponibilità di baba Emilio, il legame che si è creato tra me e la mia compagna di viaggio? Come si può raccontare, sorridendo nostalgicamente, dell’acqua calda che mancava, della leggerezza con cui si lasciava la cucina in balia dei passanti e degli animali selvatici, dell’odore pungente dei roghi di rifiuti davanti alla finestra della camera da letto?

Elisa in TanzaniaL’Africa è magica, l’Africa è un altro mondo, e non ci si può vivere se non si depongono le armi con cui scendiamo quotidianamente in campo qui, in Europa, in Italia, nelle nostre città. Niente cellulari, pochissime macchine, l’asfalto sulle strade è un privilegio. Le ore si contano con il sole, dalle sei del mattino alle sei di sera. Poi il buio. Tutti sorridono, cantano, ballano, passeggiano piano, assaporano il tempo, senza noia, senza pretese. Non hanno nulla, ma ringraziano il cielo almeno quattro volte al giorno per quel nulla.

La domenica la chiesa fatica a contenere i fedeli accorsi dai villaggi limitrofi per la Santa Messa: si respira una spiritualità gioiosa, i canti sono ricchi di brio, nessuno scolla gli occhi dal sacerdote, e tu, che non capisci una parola di kiswahili, segui l’omelia come se ti stessero svelando il segreto dell’eterna giovinezza. Se ti abbandoni e ti lasci cadere, l’Africa ti abbraccia, e, su quella terra arida e bruciata che ti circonda, erge per te grattacieli di emozioni.

Dunque, com’è andata? Beh, è stato indimenticabile. Tutto qui.

* 22 anni, di Seniga (Bs), quarto anno del corso di laurea magistrale a ciclo unico in Giurisprudenza, sede di Milano.