Il coronavirus cambia le nostre abitudini e limita la nostra libertà ma influenza anche le dinamiche democratiche. Non solo in Paesi, come l’Ungheria, che già hanno mostrato involuzioni nel processo di democratizzazione ma anche nelle più solide democrazie del vecchio continente. «Ci sono state altre epidemie nel passato, anche nel corso del ‘900, e ciascuna ha una storia diversa, come differenti sono le società che vi si misurano» spiega Damiano Palano, docente di Scienza politica alla facoltà di Scienze politiche e sociali e direttore del dipartimento di Scienze politiche dell’Università Cattolica. «Non sappiamo cosa lascerà questa situazione di emergenza. Sicuramente queste crisi non innescano un’inversione di tendenza ma un’accelerazione rispetto a processi già delineati in precedenza. Con tutte le cautele del caso, pensando a cosa lascerà sulle nostre strutture politiche possiamo riconoscere una difficoltà delle nostre democrazie».
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Proviamo a dare un nome a questo affanno democratico. «In questa emergenza risaltano due grandi tendenze degli ultimi anni. La prima è la perdita di prestigio della democrazia liberale nel mondo: la sua capacità di gestione della crisi non si è rivelata particolarmente efficiente e il modello cinese, invece, è guardato da molti come più efficace. Una tendenza presente da tempo, che si è ulteriormente rafforzata: l’idea di concedere poteri straordinari e di sospendere la dinamica democratica per garantire un intervento più efficiente è una tentazione che, al di là del caso di Orban in Ungheria, è ugualmente ben presente anche altrove».
E la seconda tendenza? «Ciò che diventa più evidente in questi giorni è la perdita di peso della dialettica parlamentare nella gestione della crisi e anche nella discussione pubblica. Anche questa non è una novità. Negli ultimi 30 anni c’è stata una crescita costante del peso degli Esecutivi che hanno progressivamente sottratto potere ai Parlamenti per prendere decisioni più coerenti e rapide secondo i tempi richiesti dalle dinamiche globali e dalle dinamiche economiche. Più che un’inversione di tendenza la gestione dell’epidemia innesca un’accelerazione con un duplice risvolto: se da un lato questo potrebbe rassicurare, dall’altro può preoccupare perché sottopone a ulteriori tensioni delle istituzioni che si sono col tempo indebolite sempre di più».
Qualcuno evoca scenari orwelliani di controllo totale. «Mai come in questi giorni ci siamo resi conto delle potenzialità che offrono le nuove tecnologie nel mappare i movimenti dei cittadini e nel controllare il loro stato di salute e la loro vita privata. Tutto questo non ha a che vedere con il carattere autoritario o democratico di uno Stato. Semplicemente si tratta di una trasformazione radicale che renderà le nuove tecnologie sempre più indispensabili non solo nelle situazioni di emergenza ma anche nella prevenzione del suo insorgere e per costruire le politiche pubbliche, per pensare gli interventi sanitari e così via. È una trasformazione più profonda rispetto ai rapporti esecutivo-legislativo o maggioranza-opposizione: riguarda la modalità di esercizio del potere».
Anche questa non è una tendenza nuova… «Tutto il ‘900 è stato segnato da una trasformazione in senso biopolitico dell’intervento dello Stato, cioè il controllo non è semplicemente sulle opinioni dei singoli cittadini ma è stato anche sulla modalità con cui essi hanno organizzato la loro vita, a partire dagli interventi sulla salute pubblica. Con questo tipo di tecnologie assistiamo però a un ulteriore approfondimento del controllo sulle persone».
Come leggere questo processo? «Possiamo interpretarlo nei termini di un’esasperazione del totalitarismo novecentesco. C’è però anche un altro aspetto: in gran parte questi dati non sono nelle mani degli Stati o dei governi ma soprattutto sono di proprietà di compagnie private che possono fornire agli Stati questi strumenti, di solito vendendoglieli. Presentandosi, per questo, come soggetti in grado di costruire in maniera più efficiente le politiche pubbliche, di monitorare lo stato di salute dei cittadini. E questo pone un’altra questione per le nostre democrazie: come si controllano queste compagnie che detengono informazioni così importanti per la vita pubblica, sottratte al controllo delle autorità?».