di Giulia Barenghi *

Si parla tanto di mal d’Africa ed è difficile da spiegare a chi non l’ha mai provato. Per quanto ti sforzi, resti sempre insoddisfatta dei tuoi tentativi. Tanto più che ogni Stato africano porta con sé caratteristiche e contraddizioni che lo differenziano dagli altri di questo grande continente.

Come nel caso del Camerun, un Paese pieno di contraddizioni in cui ho avuto la possibilità di immergermi per un mese e mezzo grazie al Charity Work Program. Io e la mia compagna di viaggio siamo state accolte nella comunità del Centro orientamento educativo (COE), nella sede di Mbalmayo, distante una trentina di chilometri dalla capitale Yaoundé. 

Abbiamo svolto il nostro servizio per tutta la durata della nostra permanenza all’interno del carcere, affiancando le ragazze del servizio civile a portare avanti il corso di alfabetizzazione per i minori. Due mattine a settimana ci recavamo in prigione e, insieme ad attività più ludiche, facevamo lezione a coloro che erano interessati. È fondamentale in un contesto del genere tenere la mente allenata e, anche se per poco tempo, distrarsi dalla realtà della prigione. 

Nelle altre mattine della settimana abbiamo seguito Marianne, una giurista che fornisce consulenze legali ai detenuti. In questo caso la nostra presenza era più che altro di osservatrici, ma è stato molto interessante capire come funziona il sistema giudiziario camerunense e le categorie di reati che vengono commessi più frequentemente. 

Oltre alle attività legate al carcere, abbiamo avuto anche la fortuna di partecipare ad alcune iniziative promosse dall’ospedale Saint Luc del COE. Un sabato mattina siamo partiti presto con il pick-up per raggiungere Ndele, un piccolo villaggio immerso nella foresta equatoriale, dove è presente un dispensario ormai poco funzionante. Durante queste giornate l’ospedale offre consultazioni mediche gratuite e farmaci a costi ridotti per coloro che vivono lontano dai centri abitati e che faticano a farsi carico delle spese mediche. Abbiamo preso parte anche a una ricerca nei vari quartieri per analizzare la percezione della popolazione nei confronti dell’ospedale, per apportare cambiamenti e migliorare ciò che non funziona. 

Un mese e mezzo è passato senza che me ne accorgessi. Ogni persona incontrata ha aggiunto un pezzettino del puzzle che sto cercando di terminare ora che sono tornata, ma che rimarrà necessariamente incompleto perché è presuntuoso pensare di conoscere totalmente una realtà così variegata e ricca di sfumature.

Mi sono resa conto di quanto sia necessario abbattere qualsiasi schema mentale per poter veramente comprendere una cultura e una mentalità quasi agli antipodi della nostra. È uno sforzo enorme che non sempre riesce e tante cose rimarranno incomprese. Ciò che conta è continuare a farsi delle domande, anche se le risposte non arriveranno subito. 

* 23 anni, di Robecco sul Naviglio (Mi), secondo anno del corso di laurea magistrale in Politiche per la Cooperazione internazionale allo Sviluppo, facoltà di Scienze politiche e sociali, campus di Milano (Giulia è la prima a estra nella foto in alto)