di Alessandra Ceriani *

Ho sempre pensato che il volontariato potesse aiutare chi riceve aiuto ma anche chi lo dona. Ed è stato così anche nel mio Charity Work Program in Etiopia. Sono partita con questa certezza, senza cercare troppe informazioni.

La prima tappa è stata Addis Abeba, città polverosa, dove svettano qua e là palazzoni incompiuti avvolti da impalcature di legno visibilmente poco sicure. Nella vie laterali si aprono quartieri di baracche di lamiera. Le Suore ci hanno accolto calorosamente nella loro casa: già si sentiva il profumo dell'ospitalità e della gentilezza che caratterizzano queste meravigliose donne, che mettono a disposizione tutte loro stesse per il prossimo.

Dopo poche ore siamo partite per la destinazione finale: Debre Birhan. Una natura meravigliosa ha accompagnato il mio viaggio: distese verdi, colline, animali, agglomerati di capanne. Sentivo sempre più vivo il profumo dell'Africa.

A Debre Birhan lo scenario era di nuovo cambiato: il paesaggio era rurale e armonioso. La missione delle suore dove alloggiavo era composta da una serie di case in cemento, il tutto circondato da mura: era un po’ la nostra fortezza calda e confortevole, da cui ho subito sentito, però, il bisogno di uscire per esplorare il mondo esterno.

Ho visitato il mercato caotico e polveroso del sabato e il silenzioso e pacifico lago poco distante dalla missione. Due angeli custodi hanno accompagnato me e la mia amica Martina in questa scoperta: due fratelli Leul e Diyan (18 e 17 anni) che ogni anno accolgono le ragazze che arrivano nella missione delle suore. Dopo un approccio un po’ timido, l'amicizia è venuta da sé, così naturalmente. Se il mio cuore fosse un puzzle, potrei dire con certezza che una delle tesserine porta il nome di Leul e di Diyan.

Ho imparato da loro che cosa significa volersi veramente bene tra fratelli, che cosa significa dedicare tempo per il prossimo e cosa significa sentire la mancanza di chi si vuole bene. Mi riferisco alla commozione di dover salutare, per lo più con le lacrime, persone che ti sono entrate nel cuore, ma che purtroppo non si rivedranno per molto tempo.

Vivere nella missione è stato facile: ci si sente subito a casa e si assimilano la routine e gli orari. Il tutto facilitato dalle mille attenzioni e premure delle suore, che piano piano sono diventate per me come delle seconde mamme. Sempre attente a ogni nostra esigenza e soprattutto si assicuravano che mangiassimo in abbondanza. Non ci hanno nemmeno mai fatto mancare il tè e i biscotti delle cinque del pomeriggio.

Non potrò mai dimenticare suor Sandra, l'ultima suora italiana della missione. Una donna con una forza e una tenacia immense, che ha visto il dolore e la povertà del popolo etiope e ha sempre fatto del suo meglio per aiutarlo.

Visto che avevamo carta bianca sulle attività da svolgere con gli studenti che frequentano la scuola delle suore, abbiamo deciso di dedicarci ai bambini dell'asilo (4 anni). È stata una scelta assolutamente azzeccata. Mi sono divertita e, allo stesso tempo, mi sono sentita utile. I bambini chiedevamo di noi ogni mattina, eravamo per loro una sorta di “Babbo Natale”: portavamo le caramelle, i colori, la musica. Li vedevo felici e curiosi.

Mi sono affezionata terribilmente ai quei piccoli monelli, anche se non ho potuto comunicare con le parole quanto ho voluto loro bene. È davvero incredibile descrivere il loro entusiasmo davanti a una banalissima palla e il loro stupore nel vedere le bolle di sapone. Gli adulti possono essere tanto diversi ma i bambini di tutto il mondo sono tutti uguali: stesse esigenze, stesse curiosità, stessi pianti, stesse espressioni. Eppure ad attendere quei bambini, che ho tenuto in braccio, che ho fatto ballare, a cui ho soffiato il naso, c’è un destino diverso da quello dei ragazzini che facevo giocare ai grest estivi in Italia.

Destino diverso, non significa necessariamente peggiore, ma sicuramente lontano dai nostri canoni occidentali. Ho apprezzato molti degli aspetti della cultura etiope, così profondamente religiosa, forse arretrata ai nostri occhi, ma così orgogliosa di essere antica e incontaminata dalle influenze occidentali. Mi hanno colpito il valore della pace, dell’accoglienza e soprattutto la profonda gentilezza: una gentilezza d'animo che nella mia vita ho trovato in poche persone.

È un sentimento puro, permanente, gratuito, disinteressato. Comprende anche il prendersi cura degli altri, chiunque essi siano, sentirsi responsabili verso la propria comunità. Ho potuto apprezzare e sentire tutto questo perché a Debre Birhan mi sentivo diversa. Mi sentivo libera da ogni ansia, preoccupazione, scadenza. Mi sono sentita a mio agio, non giudicata ma semplicemente accolta. Proprio grazie a questo stato d'animo ho potuto godere la bellezza di ciò che ho vissuto. Penso di aver sentito mille volte sentirmi dire “non c'è problema” o “non preoccuparti”. È stata un’esperienza breve ma così intensa, un profondo respiro ricco di un ossigeno rigenerante.

* 21 anni, di Mantova, terzo anno del corso di laurea triennale in Scienze linguistiche per le relazioni internazionali, facoltà di Scienze linguistiche e letterature straniere, campus di Milano

http://www.unicatt.it/facolta-scienze-linguistiche-e-letterature-straniere