di Cecilia Fiocchi *
È strano pensare come ci si possa sentire a casa in un posto così diverso e lontano dall’Italia. Ma è stato così fin dal mio arrivo a Porto Velho, nella struttura dell’associazione Casa Familia Rosetta, che ha contribuito a rendere memorabile la mia esperienza in Brasile.
La prima cosa che ho fatto, in ossequio alla mia passione per i viaggi e alla mia curiosità verso nuovi luoghi e culture, è stata di scoprire questa località così poco conosciuta. Non dimenticherò mai i colori del tramonto, affacciato sul fiume Madeira, che ho potuto ammirare il giorno del mio arrivo. Come anche il primo churrasco che ho mangiato in una cascina in mezzo al verde, accompagnato da due amici della festeggiata che cantavano e suonavano la chitarra in un clima di festa. Oppure il bagno nel fiume Rio Preto con vista su una cascata circondata dai sorrisi e dagli abbracci di due bambine molto affettuose i cui genitori lavoravano nella comunità.
L’iniziale incertezza, dovuta al portoghese tascabile imparato in un breve corso online per imparare le parole base, è svanita grazie alla disponibilità e alla pazienza degli operatori e degli ospiti della struttura. È in particolare alle ragazze della comunità femminile, che stavano svolgendo il loro trattamento riabilitativo per la dipendenza da alcol e droga, che devo la maggior parte del mio portoghese.
Quante volte le interrompevo per chiedere spiegazioni su alcune parole o frasi o chiedevo di spiegarmi il nome di alcuni oggetti, e ancora oggi mi stupisco di come abbiano sempre risposto col sorriso invece che con l’espressione infastidita che ci si potrebbe aspettare. Ho vissuto con loro per tre settimane, partecipando alla loro quotidianità. Prendevo parte ai loro gruppi terapeutici, alle loro attività quotidiane che si alternavano secondo una routine stabilita, come la cucina e l’arte terapia e ad altri momenti di svago come il ballo, i massaggi, la piscina, l’artigianato.
È stata una grande opportunità, anche dal punto di vista psicologico, poter vivere in prima persona il funzionamento di una comunità terapeutica, comprenderne la metodologia, gli strumenti utilizzati, anche attraverso il dialogo diretto con gli psicologi che lavorano all’interno. Il tempo trascorso insieme a queste ragazze, inoltre, mi ha permesso di sgretolare qualsiasi tipo di stereotipo che si potrebbe avere nei riguardi di persone con dipendenza chimica.
Nonostante la loro realtà di vita, la maggior parte delle volte molto fragile e delicata, e i loro trascorsi spesso tutt’altro che positivi, erano persone con cui avevo in comune più di quanto pensassi: in primis la voglia di essere felici, di avere una famiglia, di costruirsi un futuro. Mi hanno fin da subito accolto nella comunità con molta apertura e curiosità e ci siamo aiutate reciprocamente fino ad arrivare a istaurare un rapporto di amicizia.
Ho trascorso l’ultima settima in un centro di riabilitazione per bambini con disabilità psico-motoria, affiancando le operatrici nel reparto di fisioterapia, fonologia e psicologia e conoscendo dai loro racconti la realtà di questi bambini. Una situazione molto difficile, in cui ho respirato, però, un’aria di felicità e di amore, dal momento che le operatrici erano molto affiatate sia tra di loro sia con i bambini stessi. Le risate, gli scherzi e le battute che accompagnavano gli esercizi erano all’ordine del giorno, proprio perché permettevano di aumentare il loro livello di coinvolgimento e affrontare così gli esercizi al meglio. Giocare con loro, aiutarli a mangiare, riaccompagnarli nelle loro case è stata fonte di grande soddisfazione perché ciò che facevo con loro era qualcosa di veramente utile, fonte di emozioni positive, di cui tutti i bambini hanno bisogno. Porterò tutto con me. Sperando di tornare.
* 24 anni, di Milano, studentessa del quinto anno del corso di laurea in Psicologia per il benessere: empowerment, riabilitazione e tecnologia positiva, facoltà di Psicologia, campus di Milano