La mano bionica testata al Gemelli su un paziente daneseUna mano artificiale innestata sul braccio amputato, capace di muoversi non solo rispondendo direttamente agli impulsi del cervello, ma anche in grado di trasmettere sensazioni tattili, facendo “sentire” forme e consistenza degli oggetti impugnati. La sperimentazione che ha reso possibile questo nuovo passo verso l’impianto definitivo di mani bioniche si chiama LifeHand2 ed è frutto di un progetto internazionale che vede l’Italia in prima linea. Ci hanno lavorato medici e bioingegneri dell’Università Cattolica–Policlinico Agostino Gemelli di Roma, dell’Università Campus Bio-Medico di Roma, della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e dell’Ircss San Raffaele di Roma. Fanno parte del gruppo di ricerca anche due Centri oltreconfine: l’Ecole Polytechnique Federale di Losanna e l’Istituto IMTEK dell’Università di Friburgo. I risultati dello studio, pubblicati sul nuovo numero dalla rivista Science Translational Medicine in uscita il 5 febbraio, documentano la straordinarietà del risultato ottenuto. Tra gli autori dello studio anche l’attuale ministro dell’Università e della Ricerca, professoressa Maria Chiara Carrozza.

Era il capodanno del 2004, quando Dennis Aabo Sorensen, 36enne danese, subì l’amputazione della mano sinistra, distrutta dallo scoppio di un petardo. Da allora solo una protesi estetica e l’impegno a ricominciare con la forza d’animo che gli ha anche permesso di superare i test psicologici di selezione, fino ad arrivare a Roma, per affrontare la fase sperimentale di LifeHand 2. La comunicazione tra cervello di Dennis e mano artificiale ha effettivamente funzionato grazie a un complesso sistema d’impulsi tra centro e periferia, tra organismo e arto artificiale, che ha avvicinato ulteriormente la scienza alla riproduzione del fenomeno naturale. «Quella del feedback sensoriale è stata per me un’esperienza stupenda - racconta Dennis -. Tornare a sentire la differente consistenza degli oggetti, capire se sono duri o morbidi e avvertire come li stavo impugnando è stato incredibile».

Un’esperienza soggettiva confermata dall’osservazione sperimentale. In otto giorni di esercizi, infatti, Dennis è stato in grado di riconoscere la consistenza di oggetti duri, intermedi e morbidi in oltre il 78 per cento di prese effettuate. Nell’88 per cento dei casi, inoltre, ha definito correttamente dimensioni e forme di oggetti come una palla da baseball, un bicchiere o l’ovale di un mandarino. Non solo. Ha saputo anche localizzare la loro posizione rispetto alla mano con il 97 per cento di accuratezza, riuscendo a dosare con precisione non troppo distante da quella di una mano naturale la forza da applicare per afferrarli.

I dati sperimentali hanno così dimostrato che è possibile ripristinare un effettivo feedback sensoriale nel sistema nervoso di un paziente amputato, utilizzando i segnali provenienti dalle dita sensorizzate della protesi.

Otto ore d’intervento chirurgico per l’impianto degli elettrodi

Il punto di collegamento tra sistema nervoso di Dennis e protesi biomeccatronica sono stati quattro elettrodi intraneurali, poco più grandi di un capello, impiantati nei nervi mediano e ulnare del suo braccio. Un intervento delicato, durato più di otto ore, eseguito il 26 gennaio del 2013 al Policlinico “Agostino Gemelli” di Roma dal neurochirurgo Eduardo Marcos Fernandez. Sviluppati nel Laboratorio di Microtecnologia biomedica Imtek dell’Università di Friburgo, sotto la direzione del professor Thomas Stieglitz, gli elettrodi sono stati impiantati trasversalmente rispetto ai fascicoli nervosi, in modo da moltiplicare la loro possibilità di contatto con le fibre dei nervi e di conseguenza la loro capacità di comunicazione con il sistema nervoso centrale.

Il professor Paolo Maria Rossini stringe la mano al paziente daneseIl gruppo di lavoro coordinato da Silvestro Micera, docente di Bioingegneria all’Istituto di BioRobotica della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e presso l’Ecole Polytecnhique Federale di Losanna, ha sviluppato parallelamente una serie di algoritmi capaci di trasformare in un linguaggio comprensibile al cervello di Dennis le informazioni provenienti dalla mano artificiale. «Il paziente è riuscito a modulare in maniera molto efficace e in tempo reale la forza di presa da applicare sugli oggetti - commenta il professor Micera -. Ha svolto, inoltre, gli esercizi bendato, riuscendo a riconoscere le varie proprietà di questi oggetti grazie unicamente al continuo invio d’informazioni sensoriali dalla protesi al suo sistema nervoso. È la prima volta che si realizza qualcosa di simile”.

Usa una metafora, per spiegare la sfida, il professor Paolo Maria Rossini, responsabile clinico della sperimentazione presso l’Irccs San Raffaele Pisana di Roma e direttore dell’Istituto di Neurologia dell’Università Cattolica-Policlinico Gemelli: «Ci siamo presentati un po’ come i ricercatori della prima missione lunare: dopo anni di lavoro spingi il bottone, fai partire l’astronave e da lì non puoi più tornare indietro». Il viaggio verso il futuro, comunque, è andato bene: «Avevamo l’obiettivo di esplorare i cambiamenti nell’organizzazione del cervello di Dennis - prosegue Rossini - sperando che si verificasse quel che poi è stato: il pieno controllo dei feedback provenienti dalla protesi da parte del paziente, la preservazione della funzionalità di ciò che rimane dei suoi nervi mediano e ulnare, la riorganizzazione della neuroplasticità del suo cervello in modo da consentirgli un efficace controllo della mano robotica».

Le novità di LifeHand 2 rispetto alla sperimentazione del 2008

Finanziato dall’Unione europea e dal ministero della Salute italiano, il cui ente capofila è l’Irccs San Raffaele-Pisana di Roma, LifeHand 2 è il proseguimento di un programma di ricerca che cinque anni fa portò la protesi biomeccatronica CyberHand - versione meno evoluta della OpenHand utilizzata per questo secondo esperimento - a rispondere per la prima volta al mondo ai comandi di movimento trasmessi direttamente dal cervello del paziente. Nel 2008, tuttavia, la protesi non poteva ancora essere calzata sul braccio umano, permetteva di compiere solo tre movimenti (presa a pinza, chiusura del pugno e movimento del mignolo) e non restituiva alla persona nessuna sensazione.

Prospettive future per lo sviluppo di protesi e non solo

«La sperimentazione appena conclusa - spiega il professor Eugenio Guglielmelli, direttore del Laboratorio di Robotica Biomedica e Biomicrosistemi dell’Università Campus Bio-Medico di Roma - ci permette di guardare con fiducia all’obiettivo d’integrare in questo tipo di protesi un numero sempre più elevato di sensori tattili. Più aumenta la complessità di sensazioni e movimenti, più sarà importante individuare algoritmi che distribuiscano nel modo migliore possibile i compiti da assegnare al cervello e quelli che possono invece essere delegati al controllo dell’intelligenza artificiale montata a bordo della mano. Su questi aspetti la nostra ricerca prosegue».

L’utilizzo della stimolazione intraneurale mediante elettrodi non interessa tuttavia soltanto lo sviluppo di sistemi di comunicazione tra corpo umano e protesi bioniche. Con la loro applicazione a differenti livelli d’invasività, che possono arrivare fino all’impianto di questi sottili filamenti direttamente nel cervello, la stimolazione intraneurale vede da tempo impegnati molti gruppi di ricerca in tutto il mondo nella cura di diverse patologie, come per esempio i deficit di movimento di soggetti paraplegici. Frontiere della ricerca accomunate da una relazione sempre più stretta tra corpo umano e tecnologia.