di Simone Tosoni *

È uno strano destino quello delle subculture giovanili degli anni Ottanta in Italia. Punk, dark e paninari, le più note, sono infatti entrate fin da subito a fare parte del nostro immaginario. Riconosciamo facilmente a quali “codici” rimandino creste colorate e giubbotti coperti di scritte e borchie, il total black di spolverini lunghi fino ai piedi, o ancora i colori sgargianti dei Moncler abbinati a jeans (con risvolto) rigorosamente griffati Emporio Armani. Questi tratti stilistici sono anzi diventati a tutti gli effetti simboli di un decennio che non accenna a volersi chiudere, almeno a giudicare dalle incessanti ondate di revival che continuano a riproporlo, soprattutto nella moda e nella musica. Di queste realtà abbiamo però una conoscenza assolutamente superficiale, che non si spinge molto oltre la nota di folklore.

Sappiamo ben poco, ad esempio, di cosa abbiano rappresentato in quegli anni e nel nostro Paese queste forme di appartenenza per chi le ha vissute. Allo stesso modo, non sappiamo quasi nulla di cosa abbiano comportato questi modi di vestirsi e truccarsi nei contesti della vita quotidiana di allora: nel gruppo di pari, in famiglia, in città, a scuola, sul posto di lavoro. La sociologia e le scienze sociali in Italia hanno infatti lasciato le subculture giovanili praticamente inesplorate, al contrario di quanto è avvenuto in ambito accademico anglosassone, dove godono di un’attenzione sistematica e ininterrotta da oltre tre decenni. […] 

Dalla ricerca è […] emerso come ogni subcultura rimandasse a una precisa presa di posizione nei confronti del presente, basata su quanto – più o meno consapevolmente – si osservava accadere nella vita quotidiana: la chiusura della fase di lotte degli anni Settanta, il venir meno delle forme di socialità e di sperimentazione culturale che le avevano caratterizzate, il brusco giro di vite sui movimenti, la cosiddetta ondata di riflusso che tornava a chiudere molti nel privato, il dramma della diffusione dell’eroina come droga di massa. E soprattutto il passaggio di Milano al terziario avanzato, che inaugurava la fase di un edonismo all’italiana che eleggeva la città a sua capitale, che faceva di successo e benessere valori assoluti, e che trovava la sua colonna sonora nell’italo-disco più commerciale.

Ciò che accomuna le diverse prese di posizione elaborate dalle subculture giovanili degli anni Ottanta nei confronti di questi eventi è una medesima constatazione di fondo, che rappresenta la loro vera e radicale novità rispetto alle controculture degli anni Settanta: la consapevolezza che queste tendenze non possono essere contrastate, che il mondo non può essere cambiato. 

Non resta quindi, ed è la via tracciata dai paninari, che dare il benvenuto al nuovo corso rispondendo con entusiasmo all’invito al godimento della “Milano da bere”. L’ostentazione della disponibilità economica attraverso il consumo, a partire dal capo d’abbigliamento firmato, manifesta così il desiderio di lasciarsi definitivamente alle spalle il decennio precedente, con i suoi ideologismi esasperati e l’aria avvelenata della violenza politica (ma risse e pestaggi non mancheranno neanche nel decennio a venire). 

Per il punk, si tratta al contrario di constatare una sconfitta senza appello: No Future, recita il più famoso degli slogan di quegli anni. Eppure questo non significa dichiarare la resa: la scelta semmai è quella di una contrapposizione frontale che non spera più in alcun modo di vincere. La lotta dei più organizzati, e gli atteggiamenti ribelli degli altri, mirano al più a difendere i propri spazi di libertà, in città come nella vita di tutti i giorni. Eppure il conflitto va praticato, nonostante tutto: ad esso si attribuisce un valore etico in sé, e gli si riconosce una valenza che è in larga parte identitaria. L’«antagonismo», come lo chiameremmo oggi, definisce ciò che si è, mentre lo stile aggressivo e vistoso deve attestarlo pubblicamente. 

Questa impostazione di fondo è condivisa in gran parte anche dal dark, che però se ne distacca proprio per la rinuncia allo scontro frontale: non solo perché questo comporta un costo personale che non si è disposti a pagare, ma anche perché la formula del punk va stretta a chi è impegnato a cercare se stesso al di fuori dei valori sociali dominanti e dei modelli identitari che questi comportano. […]

E oggi? Cosa resta di queste forme di espressione culturale? […] Le forme di appartenenza legate alla musica e allo stile sembrano oggi farsi sempre più trasversali rispetto alle età, dando vita a vere e proprie scene trans-generazionali assolutamente sconosciute agli anni Ottanta. Per quanto riguarda il nostro Paese, sarebbe però incauto aggiungere altro, proprio per la mancanza di ricerca sistematica cui si faceva riferimento: una mancanza che è urgente tentare di colmare. 

* Simone Tosoni è ricercatore in Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso la facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove tiene diversi corsi sui media digitali. Si occupa di media e trasformazioni culturali, e in particolare di uso dei media nello spazio urbano. Sul tema delle subculture in Italia ha pubblicato Creature simili. Il dark a Milano negli anni ’80, con Emanuela Zuccalà (2013), la prima ricerca sociologica sistematica sul post-punk italiano.