vignetta dattilografaLa festa della donna si avvicina e con essa non mancano le occasioni per dibattiti e riflessioni legati all’universo femminile. Una di queste, dal punto di vista storico, è rappresentata dalla mostra ‘Donne nell’occhio della satira durante gli anni del fascismo’ che si terrà nel corridoio Montini della Cattolica di Brescia dal 18 al 31 marzo. L’esposizione, proposta dall'Archivio per la storia dell'educazione in Italia diretto dal professor Luciano Pazzaglia e realizzata in collaborazione con la Biblioteca Nazionale Braidense e la Libera Università delle Donne, raccoglie un’ottantina di vignette che hanno come oggetto la figura femminile tratte dai più importanti periodici satirici dell’epoca come il Guerin Meschino, Il Bertoldo, Ecco Settebello, Il Becco Giallo, Marc’Aurelio e il 420 solo per citarne alcuni.

Ma qual è stato realmente il rapporto del fascismo con le donne? Le vignette che venivano pubblicate su questi periodici possono essere definite satiriche? A queste e altre domande, su cui il dibattito storiografico è ancora aperto, si proverà a dare risposta durante nel seminario intitolato ‘Immagine e realtà. Donne, educazione, fascismo’ che inaugurerà la mostra.

«Si tratta di un dibattito che ha forti implicazioni educative dal punto di vista della lettura di genere – spiega Fulvio De Giorgi, docente della facoltà di Scienze della Formazione all’Università di Modena e Reggio Emilia - per quel che riguarda il rapporto del fascismo con le donne ci sono due correnti di pensiero: la prima sostiene che il ventennio sia stato un periodo estremamente maschilista in cui il ruolo della donna era svilito e asservito alla superiorità maschile mentre la seconda riconosce al fascismo il merito di aver modernizzato la figura della donna rendendola attiva nella vita sociale del Paese, seppure inquadrata nelle gerarchie delle organizzazioni fasciste».

«Il tipo di donna che veniva preso in giro nelle vignette fasciste era quello delle potenze alleate, in particolar modo francese. Una donna senza seno, poco fascinosa, simbolo di una società decadente, aggettivo che veniva collegato spesso ai Paesi democratici. C’erano poi le streghe moderne che invece di cavalcare la scopa cavalcavano un aspirapolvere. Non risultano, almeno per quanto riguarda il materiale raccolto nella mostra, ironie nei confronti delle donne ebree mentre c’era, in difesa dell’impresa coloniale, la ridicolizzazione della donna africana che seguiva il più comune degli stereotipi razzisti. Veniva irrisa anche la donna intellettuale che veniva raffigurata sempre come poco femminile, mascolinizzata, brutta».

«Per ciò che concerne la questione della satira durante il ventennio non c’è uniformità di vedute – spiega De Giorgi – poiché una buona parte di studiosi reputa che molti periodici dell’epoca, compresi quelli che pubblicavano le vignette della mostra, non meritino di essere definiti satirici perché non pungevano, non era nelle loro corde né nelle loro intenzioni, erano accettati dal regime. Tuttavia c’è chi non è cosi drastico e che ricorda come il solo fatto di pubblicare materiale umoristico in un Paese sotto un regime sia comunque un tentativo coraggioso, anticonformista. In generale si può dire che questi periodici satirici o umoristici che fossero rappresentavano un genere che in Italia in quel periodo storico non poteva avere successo. Troppo seri i problemi che avvolgevano il nostro Paese, troppo tesa la situazione interna. Anche volendo l’ironia, la battuta di spirito non erano fascistizzabili. Il regime imponeva comunque dei paletti troppo rigidi per espressioni artistiche di quel tipo».

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