Quando nel 1960 esce in Italia “La dolce vita” è un vero successo. Più di un italiano su cinque va al cinema per vedere il capolavoro firmato da Federico Fellini e sono 12 milioni e 600mila i biglietti staccati. Un caso cinematografico, che deflagra però anche in un acceso dibattito culturale, soprattutto nel mondo cattolico.
Una disputa durissima che, a cent’anni dalla nascita del regista e a sessanta dall’uscita del film, viene rievocata attraverso documenti d’epoca, a partire da una ricerca dell’Università Cattolica. «La dolce vita e il 1960 sono uno spartiacque per l’approccio della cultura cattolica al cinema. La visione più tradizionale vedeva il cinema come uno strumento educativo e per questo ne faceva derivare un carattere contenutistico e morale. I gesuiti milanesi raccolti attorno al Centro San Fedele cominciarono a proporre un approccio più complesso al linguaggio cinematografico e a un pubblico non più pensato come passivo ma capace di interpretare». Lo ha detto il professor Massimo Scaglioni, docente di Economia e marketing dei media all’Università Cattolica, nel corso del seminario Fellini e la cultura cattolica. Il caso “La dolce vita” attraverso gli archivi audiovisivi, che si è tenuto venerdì 11 settembre al Lido di Venezia. All’incontro, moderato da Gianluca Arnone, sono intervenuti, tra gli altri, padre Antonio Spadaro, direttore La Civiltà Cattolica, Giuseppe Pedersoli, regista e autore del documentario “La verità sulla dolce vita”, Andrea Minuz, docente di Storia del cinema all’Università La Sapienza di Roma e giornalista de Il Foglio, e Oscar Iarussi, giornalista e critico.
«Negli archivi audiovisivi si trova ben poco», ha detto il professor Scaglioni, presentando la ricerca. «Se non un’intervista del 1964 di Sergio Zavoli al gesuita padre Angelo Arpa, amico di Fellini e esponente del Centro San Fedele, in cui si capisce che qualcosa è cambiato e da cui emerge il bisogno di credere espresso dal regista, un’ansia esistenziale, manifestazione di un umanesimo profondo e sincero». Del resto le parole finali della sua intervista lo confermano: “Fellini resta una testimonianza inquieta non inquietante dell’uomo contemporaneo”.
La dolce vita, quindi, rimanda a una visione di Dio che in quegli anni stava maturando. Ne è convinto il direttore de “La Civiltà Cattolica” Antonio Spadaro. «Altro che discutere se il film fosse adatto al pubblico o no. Quello che si aprì nel mondo cattolico di allora fu un dibattito squisitamente teologico». Quel film «riuscì a far litigare i gesuiti sulla questione della Grazia, una questione espressamente teologica. La visione di Dio e della Chiesa esplose in quel film. Una Grazia che tu, la ami o no la ami, ti aspetta comunque. Nel finale Marcello se ne va, ma Paolina resta, affermando di esistere anche quando tu mi rifiuti».
Insomma, una vicenda intricata che ha per protagonista il mondo cattolico. E a tal proposito, padre Spadaro richiama alla memoria i tre aspetti che sintetizzano la posizione negativa del gesuita Enrico Baragli nei confronti del capolavoro felliniano: non realistico, senza una tematica religiosa definita e per niente educativo. Eppure, ha precisato padre Spadaro, quella che emerge dal film è «una religiosità fatta di solidarietà con le forze più pericolose e contraddittorie dell’esistenza. Non è questa la vera forza del Vangelo al di là di qualsiasi moralismo e clericalismo? La Grazia è proprio la solidarietà con le contraddizioni della vita umana».
La conclusione del dibattito è stata affidata ad Andrea Minuz e a Oscar Iarussi. Entrambi hanno posto l’accento sul fatto che un film «difficile» e «amarissimo» nel tempo si sia trasformato in «un mito glamour». Questo perché, ha detto Iarussi, Fellini è uno specchio per certi versi grottesco della nostra identità, che si riflette anche nel lessico: nessun regista ha offerto tanti lemmi alla lingua italiana, primo fra tutti Amarcord.
E come padre Spadaro ha stabilito un canone teologico per leggere il film di Fellini, un altro elemento sostanziale resta la sua «capacità di decostruire il racconto tradizionale». Si tratta, ha concluso Iarussi, della capacità di riflettere «quella pirotecnia, oscura e a volte splendente, che nella “dolce vita” vige e vibra dentro il mosaico del boom economico con il presagio di quello che non andrà», facendone così «l’opera d’arte più rilevante della seconda metà del Ventesimo secolo».