Il politoloto Joseph Maila«La religione oggi si trova implicata in molti conflitti. E può sembrare un elemento di rottura che alimenta, nutre la conflittualità. Si ritrova l’invocazione del nome di Dio nella legittimazione della violenza. Ma la religione è anche portatrice di valori, aperta all’umanità tutta intera. Nessuna religione è riservata ai soli credenti, ma porta valori come dialogo, misericordia, perdono, apertura». Joseph Maïla (nella foto a sinistra), politologo di fama internazionale, docente di Geopolitica a l’École supérieure de sciences économicques et commerciales di Parigi (Essec) e direttore del Centro di ricerca sulla pace dell’Institut Catolique della capitale francese, è in Università Cattolica per il convegno organizzato dall'Archivio Julien Ries per l'antropologia simbolica, dove parla di “Religione tra rottura e riconciliazione” a pochi giorni dagli attacchi terroristici di Parigi.

Di fronte alle semplificazioni che tornano sull’onda della paura e dell’emozione, le parole del professore francese chiariscono il ruolo della religione nelle nostre società. «Esiste una tensione tra la effettività della religione (il fatto sociale) e la normativa. Sono le affermazioni identitarie che possono chiudere, pregiudicare l’apertura. Soprattutto nei monoteismi. Ontologicamente la religione è tensione tra il fatto di possedere la verità e l’aprirsi agli altri. Un’apertura sovra-comunitaria, universale. I due aspetti coesistono: il fatto identitario e l’apertura. Bisogna considerare la funzione sociale della religione nei conflitti: quando l’identità cittadina sparisce può subentrare quella religiosa. Non più cittadino di una Nazione, ma di una “comunità”».

Come deve collocarsi nelle nostre società moderne? «Io non sono tra quelli che pensano che la religione debba essere conservata solo nel foro interno. Oggi, con la secolarizzazione, si ritiene che la religione debba essere un fatto privato. Ma come fedeli si è portatori di valori, ed è necessario per il dibattito pubblico che il punto di vista della chiesa sia evidente. L’espressione libera di una concezione del mondo. I cristiani sono anche cittadini. Poi, siamo in democrazia. La rappresentazione nazionale deve legiferare in tutta autonomia. Don Sturzo diceva: “La laicità non è la separazione delle sfere ma la loro distinzione.”».

La religione codificata, nozionistica, vive una dicotomia insanabile con la spiritualità del singolo? «No, qui si torna alla relazione tensionale. Bisogna adattarsi al mondo moderno a partire dalle proprie convinzioni. La sintesi non è facile tra un’aspirazione e un fatto sociale istituzionalizzato. Ci sono tensioni con la società che cambia. E per affrontare le nuove sfide bisogna far ritorno all’ispirazione religiosa. Pensiamo alla dottrina sociale della chiesa, da Leone XIII a papa Francesco. Leggere la modernità alla luce del Vangelo. Dobbiamo leggere l’evoluzione. A me il termine “religione” non piace molto perché suggerisce l’idea di una cosa fissa, statica. Alcuni sociologi usano “tradizione del credere”, per cui ci si inserisce nel flusso di una storia che si è evoluta, confrontandosi con la realtà che cambiava. Un passo di Matteo, mi pare, recita più o meno: “Se non comprendete i segni in basso, come comprenderete quelli in alto?”»

Lei è stato candidato come direttore generale dell’Unesco. Quale sarebbe il suo primo gesto, oggi, se ricoprisse quella carica? «Ecco, con tutto ciò che succede proprio con la cultura: lo shock culturale, il dialogo tra culture… a me piacerebbe un forum a livello mondiale di tutti coloro che credono nel dialogo. Per affermare l’importanza dell’approccio culturale. È un nodo assente. Che fa l’Unesco su questi temi? Ora che andiamo contro la natura della cultura, che è dialogo e incontro. Cosa c’è che non va? Si può diagnosticare la crisi della cultura oggi? Oggi che la cultura è usata contro la cultura?».

Un’ultima cosa. Come definirebbe lei la“saggezza”? «È la facoltà della ragione che permette di prevenire il conflitto con il ricorso alla temperanza, al dialogo e all’apertura. Sofocle scriveva in una della sue tragedie: “Perché gli uomini non evitano la guerra?” e uno dei suoi personaggi rispondeva: “Perché purtroppo gli uomini non apprendono la saggezza dai libri, ma dalle lacrime. Solo dopo aver pianto troppo diventano saggi.” Ecco, io vorrei che si imparasse la saggezza evitando le lacrime. La saggezza è una scuola di prevenzione del male».