In queste settimane in cui tutti i settori della vita quotidiana di ognuno – dalla famiglia al lavoro, dall’istruzione al tempo libero – sono stati radicalmente stravolti in funzione delle norme in vigore per la prevenzione del contagio da Covid-19, si è molto parlato delle categorie la cui operatività è essenziale per il Paese: personale sanitario e farmacisti in primis, le forze dell’ordine, i volontari e i lavoratori impiegati a vario titolo nella filiera agroalimentare.

Eppure – in questa fase di pandemia come in situazioni di normalità – anche gli educatori e le educatrici professionali all’interno delle strutture diurne e residenziali per pazienti affetti da tipologie di disabilità, sono chiamati a garantire un servizio di assistenza alla persona 7 giorni su 7 per 365 giorni l’anno, festivi compresi. Ne abbiamo parlato con Valentina Facchini, educatrice professionale laureata alla Cattolica.

Qual è la giornata tipo di un’educatrice al tempo del Covid-19? «Attualmente la nostra attività è concentrata su una trentina di utenti – tutti stabilmente residenti presso la Comunità Socio Sanitaria o negli appartamenti protetti – di età compresa tra i 24 e gli 80 anni, affetti da varie tipologie di disabilità e presi in carico h24 poiché le famiglie non hanno la possibilità di effettuare una gestione continuativa. Lettura di libri, dialogo, uso del computer, lavori manuali e disegnati, visione di film e ascolto di musica sono le attività che attualmente svolgiamo per gestire il tempo e stemperare la quotidianità dei pazienti che usufruiscono del servizio residenziale. Solitamente oltre ai quattro appartamenti protetti, la Fondazione gestisce anche il centro diurno disabili (CDD) il centro socio educativo (CSE), il centro diurno per anziani, il servizio di fisioterapia e a riabilitazione, oltre al servizio di assistenza specialistica ad personam nelle scuole e al servizio domiciliare. Da diverse settimane tutti questi servizi sono stati sospesi, ricollocando sia gli anziani che i ragazzi in età scolare con le proprie famiglie, per limitare al massimo ingressi e uscite che possono essere veicolo di contagio nonché i nostri spostamenti che prima ci portavano a frequentare l’ambiente scolastico e le case dei pazienti, oltre agli spazi della struttura».
    
Cosa è cambiato nel vostro lavoro? «Per quanto riguarda la gestione dei residenziali cerchiamo di adottare tutte le precauzioni, utilizzando gel disinfettanti e guanti di cui, ad oggi, abbiamo sempre avuto disponibilità e che cambiamo ogni volta che ve n’è necessità, prestando attenzione allo spreco ma ancor di più a preservare la salute di tutti. Mascherine per ora ci sono, ma la fatica nel reperirle è stata ed è notevole. Sul fronte dei servizi domiciliari e dell’assistenza specialistica nelle scuole – chiaramente sospesi – cerchiamo di mantenere il contatto umano, seppur con orario ridotto, tramite skype e videochiamate. Per i ragazzi è importante avere continuità di relazione con noi educatori, assieme rielaboriamo l’esperienza».

Qual è la difficoltà maggiore riscontrata? «È stato difficile far capire ai nostri ospiti che devono tenere la distanza di sicurezza tra di loro e con noi; alcuni sono molto amichevoli, cercano il contatto e questo ora non è più possibile. Abbiamo inoltre dovuto abituarli a lavarsi le mani più spesso di quanto facessero prima e al fatto di non poter più scendere negli ambienti diurni comuni. Loro accusano molto la mancanza delle loro abitudini, percepiscono la differenza con il “prima”, e su alcuni si è creata pressione, pertanto il nostro è un costante lavoro di contenimento psicologico, lavoriamo sulla relazione per placare gli animi. Del resto, se subire restrizioni è stato complicato per tutti, proviamo ad immaginare l’impatto che può aver avuto su soggetti che presentano fragilità pregresse…»

Una laurea triennale in Scienze dell’educazione, seguita dalla magistrale in Progettazione pedagogica e formazione delle risorse umane, entrambe conseguite alla Cattolica di Brescia. C’è qualche nozione o esperienza in particolare del tuo percorso di studi che ti è tornata utile nell’affrontare questa situazione? «Nessuna, e allo stesso tempo tutte. È chiaro che un buon bagaglio teorico e di studi è un’ottima base di partenza da cui attingere per la parte pratica del nostro lavoro, ma in questo caso specifico nessuno era preparato. Non si capiva - né inizialmente ci è stato indicato - quali attività mantenere in vigore e quali sospendere, con quali strumenti e modalità operare con persone e pazienti con cui, per la natura stessa del mestiere, è evidentemente difficile mantenere una distanza. Tutti – dai direttori dei centri, a noi educatori, sino al personale Asa Oss che ci affianca h24 nelle mansioni legate all’igiene degli ospiti, ai pasti e alla sorveglianza notturna – abbiamo riscontrato enormi difficoltà di gestione, soprattutto nelle prime settimane. Ora va meglio».

Hai paura? «Sì, molta. Paura per me stessa, paura di poter essere veicolo di contagio per gli ospiti della struttura, paura di non saper fronteggiare eventuali reazioni impreviste dei nostri ospiti all’interno di una situazione che già di per sé è eccezionale, paura di nuocere alla mia famiglia con cui, ovviamente, non ho contatti se non telefonici o a distanza di sicurezza. Qualcuna di noi ha inoltre paura di non reggere psicologicamente di fronte alla sofferenza del paziente: lavorare a così stretto contatto con le persone – conoscendone giorno per giorno la quotidianità, ascoltandone pensieri e impressioni per aiutarle a relazionarsi con le persone e col contesto – significa anche questo. Significa che una fetta della loro vita è parte della tua».