Già da Aristotele, suo grande estimatore, che prese l’Edipo re a modello della perfetta tragedia, Sofocle fu posto, quasi giusto mezzo, tra Eschilo ed Euripide. Non ha più l’entusiasmo grandioso e vitale, lo slancio profeticamente religioso del primo; non conosce ancora la passione freddamente intellettuale, il gusto razionalistico del secondo. In lui si contemperano la lucida consapevolezza dell’infelicità umana e il senso della dignità della sofferenza, la chiarezza dell’analisi razionale e la percezione delle oscure forze che le sfuggono. Nei racconti del mito Sofocle rappresenta i grandi temi della vita umana, individuale e sociale; non per nulla una delle sue figure, Edipo, ha conosciuto nei secoli una fortuna che va al di là dei motivi puramente letterari ed è diventata una delle chiavi della scoperta delle forze inconsce della psiche. Questo il profilo letterario di Sofocle, autore protagonista della seconda lezione-conferenza del ciclo Teatro 2010 che è stata condotta il 4 novembre nell’Aula Magna Tovini dalla Maria Pia Pattoni. La docente di Lingua e letteratura greca della sede di Brescia ha presentato e analizzato l’Edipo re di Sofocle, affiancata dall’attore Piero Domenicaccio che ha prestato la propria voce per la lettura di alcuni passaggi salienti dell’opera.
Edipo, dopo aver sciolto gli enigmi della Sfinge, regna su Tebe sposo di Giocasta, vedova del re Laio, e padre di quattro figli: Eteocle, Polinice, Antigone e Ismene. La città è devastata da una terribile pestilenza e l’oracolo di Delfi ha consigliato, perché il flagello venga allontanato, di scoprire l’assassino di re Laio. Attraverso l’indovino Tiresia e la stessa Giocasta si chiarisce solo alla fine tutta la concatenazione degli eventi trascorsi: Laio e Giocasta avevano affidato al pastore Polibo il loro figlio loro perché venisse ucciso: volevano evitare il compimento della profezia secondo cui il piccolo sarebbe stato l’assassino del padre. Il bimbo era stato però risparmiato e risulta essere proprio Edipo, che apprende così che suo padre Laio è l’uomo che lui stesso ha ucciso in una lite sulla strada per Tebe. Giocasta, scoprendo di essere oltre che sposa di Edipo anche sua madre, inorridita si impicca ed Edipo si acceca per non vedere più il sole, testimone del suo delitto. Si allontana quindi da Tebe affidando i figli e il regno al cognato Creonte. L’intreccio della vicenda è assai atipico; di fatto si basa sulla ricostruzione a ritroso di una vicenda travagliata che sarà ricomposta solo al termine dell’opera, dopo numerosi aggiustamenti progressivi e grazie alla testimonianza finale che consente di giungere alla verità dei fatti. L’indagine che Edipo conduce su se stesso alla ricerca delle proprie origini e, di conseguenza, della propria storia personale consiste in una vera e propria analisi tragica, come la definì Friedrich Schiller. Un’indagine che fu cara a Sigmund Freud, che la considerò l’archetipo del procedimento analitico e introspettivo soggiacente al cosiddetto “complesso edipico”, a causa del quale il figlio maschio instaura un rapporto inscindibile con la madre, mentre verso la figura paterna nutre odio e risentimento. L’uccisione del padre Laio e l’incesto con la madre Giocasta sembrerebbero le prove inconfutabili del complesso individuato da Freud; in realtà Sofocle non carica di sottintesi psichici la violazione della legge naturale del rapporto tra madre e figlio che, in questa tragedia, non fa emergere l’inconscio del protagonista né un nuovo io, bensì porta solo a compimento la profezia delfica. Freud giunge a interpretare il complesso di Edipo come l’appagamento di un desiderio dell’infanzia intravedendo in questo procedimento la proiezione dello spettatore moderno che riversa i propri desideri rimossi in un orizzonte psichico che lo spettatore antico non poteva esplorare perché non gli apparteneva.
Straordinaria è l’arte con cui Sofocle costruisce il carattere del protagonista, perno delle molteplici forze che agiscono nella tragedia, ricorrendo spesso all’accostamento con un personaggio minore che gli fa da contrappunto. Edipo assurge a simbolo dell’intelligenza dell’uomo che non si ferma fino alla risoluzione di ogni enigma, spinta dalla ricerca della verità e disposta ad accettarne il peso; il profondo desiderio di conoscenza non scema, anche quando questo può trasformarsi in rovina. La relatrice ha individuato due pulsioni che animano le azioni del re Edipo: da un lato il grande senso di responsabilità che il suo ruolo di sovrano gli impone e che si tramuta nella volontà di compiere sempre il bene, dall’altro la ricerca dei propri natali al fine di placare l’angoscia interiore che lo attanaglia. Nel corso del dramma il protagonista non è statico, ma, al contrario, si crea a poco a poco attraverso l’azione, evolvendo di fronte agli spettatori. All’inizio appare saldamente costruito nel pieno della sua regalità; il suo essere razionale è sintomatico dell’approccio intellettualistico che costituì un aspetto essenziale nel mondo greco del V secolo a.C. che si rivelò un periodo culturalmente molto proficuo. “Quell’Edipo illustre che tutti conoscono” vuole sempre procedere per autopsia, ossia senza apprendere da altri, ma solo ed esclusivamente dalla propria conoscenza, motivato anche dalla fortunata risoluzione dell’enigma che lo ha reso noto a tutti. La sua conoscenza apparentemente infallibile è presto minata da un’ansia latente che si cela dietro la solida struttura del re; le parole dell’indovino Tiresia mettono in discussione proprio la capacità intellettuale che Edipo rivendica e spostano il dramma dal piano politico a quello intimo e personale. L’attenzione al procedere drammatico della vicenda si unisce in Sofocle a momenti di piena effusione lirica, mai disgiunti però dai fatti e dai personaggi a cui il coro, per solidarietà o per contrasto, è sempre strettamente unito. È questo il caso del quarto stasimo, un lamento sul destino di Edipo – ormai a conoscenza della tragica realtà – che diviene metafora paradigmatica dell’infelicità del genere umano. Si assiste qui al crollo della fiducia intellettualistica dell’uomo protagoreo incarnato da Edipo, crollo che è sottolineato anche dalla magistrale frantumazione dei trimetri disperati in cui il re, parlando a monosillabi, esprime il suo sgretolamento intellettuale ed esistenziale. La vicenda del protagonista del dramma, composto in un greco di singolare perfezione formale e stilistica, rappresenta quindi la precarietà della felicità umana che spesso assume la forma di un’illusione momentanea e apparente, inesorabilmente seguita da un cupo tramonto. Il re sembra felice a sé stesso e appare tale agli altri, sebbene in entrambi i casi si tratti di un’effimera sembianza destinata a tramontare tristemente. Accecato e trafitto da quei raggi di sole che Salvatore Quasimodo riprese in una sua celebre poesia, Edipo sta solo sul cuor della terra a ricordarci che è subito sera.