Alto rendimento, alto rischio. È un principio elementare della finanza, ma spesso viene ignorato. E, quando le cose vanno male, sono dolori. Le cause? Un basso livello di educazione finanziaria, ma anche una scarsa attitudine dei gestori di portafoglio a classificare la clientela e valutarne l’atteggiamento verso il rischio. Così i piccoli risparmiatori sono portati a ponderare i benefici futuri meno di quelli presenti: vogliono subito vedere i risultati. Lo testimonia il fatto che il numero medio di anni che si è disposti ad aspettare di fronte alla possibilità di vedere raddoppiato un capitale iniziale è pari a 6,5 anni. È questo uno dei dati più significativi emersi da un’indagine condotta su un campione di 300 intervistati e raccolta nel terzo numero dell’Osservatorio monetario, il rapporto trimestrale curato dal Laboratorio di analisi monetaria dell’Università Cattolica, in collaborazione con l’Associazione per lo sviluppo degli studi di banca e borsa (Assbb). «Se si pensa che per attrarre un cliente che ha queste attese di guadagno bisogna garantirgli un investimento con un tasso di interesse effettivo almeno pari a 11,5%, ci si rende conto quanto le aspettative della clientela siano lontane dalla situazione economica attuale», ha detto Piero Tedeschi, docente di Economia dell’impresa in Cattolica, presentando i risultati della ricerca nel corso dell’incontro promosso lo scorso 23 novembre dall’Assbb. Al dibattito, moderato da Marco Lossani responsabile del Laboratorio monetario, erano presenti Giuseppe Vigorelli, presidente dell’Assbb, i docenti dell’Università Cattolica Alessandro Antonietti e Antonella Marchetti, Luigi Guiso, dell’Istituto Universitario Europeo, Firenze e Istituto Einaudi per l’Economia e la Finanza, e Andrea Lacalamita, UniCredit Private Banking
.Obiettivo dello studio, che si è avvalso delle competenze di un gruppo di economisti e psicologi dell’Ateneo del Sacro Cuore, è stato misurare l’avversione al rischio e comprendere alcuni elementi caratteristici dei mercati finanziari, quali la relazione fra rischio e rendimento, il principio di diversificazione e la rilevanza del grado di fiducia. Un’indagine, ha continuato il professor Tedeschi, che prende le mosse da motivazioni di attualità legislative di tecnica creditizia. Infatti, tra le maggiori novità introdotte dalla direttiva Mifid, oltre a quella di una maggiore trasparenza, vi è quella di richiedere agli istituti di credito di valutare se un servizio prestato sia adeguato e/o appropriato a un cliente.
Ecco allora che la classificazione della clientela diventa fondamentale al fine di comprendere gli investitori meno sofisticati e individuare le principali variabili che entrano in gioco quando si investe in titoli. Una profilazione che è stata effettuata anche con l’uso di strumenti d’indagine di natura psicologica. Tra questi il questionario Deriel (Decision risk in everyday life) che misura l’atteggiamento verso il rischio prendendo in considerazione i diversi contesti in cui un soggetto opera una scelta. «Abbiamo optato per una visione che tiene conto del contesto poiché gli individui che fanno valutazioni sono chiamati a rispondere a situazioni specifiche», ha spiegato Alessandro Antonietti, docente di Psicologia cognitiva applicata, che insieme ad Antonella Marchetti, Ilaria Castelli, Paola Iannello e Davide Massaro, ha investigato i comportamenti psicologici degli intervistati nelle scelte economiche.
Così, tra i principali risultati emerge che un quarto del campione ignora l’esistenza del principio di diversificazione del rischio. C’è poi una correlazione tra livello di istruzione e conoscenza dei mercati finanziari; risulta inoltre che il grado di fiducia aiuta i più istruiti, pur se in misura minore di quanto ci si attende. L’indice di impazienza verso rendimenti futuri è molto elevato tra i “meno ricchi” e cresce in rapporto alla diminuzione del reddito. «Senza disattendere le nostre aspettative, l’indagine mostra che la cultura finanziaria nel nostro Paese resta ancora scarsa - conclude Tedeschi -. D’altra parte, mette in evidenza che se gli istituti di credito ricorrono a tecniche creditizie “leggere” sono maggiormente esposti a perdere eventuali ricorsi in Tribunale da parte di clienti che chiedono il rimborso parziale o totale delle perdite».