di Alfredo Valvo *
La parola è sempre stata espressione di una esperienza. Da Platone in poi la nascita della parola ha costituito un interrogativo che ha aperto squarci impensabili del pensiero umano. L’attenzione dei filosofi è stata attirata dall’humus razionale nel quale la parola sembra essere sorta, ma in ogni parola è contenuta sempre, anche se talvolta nascostamente, un’esperienza. Talvolta il pensiero cerca, spesso vanamente, il modo migliore, più calzante o meno approssimativo, per indicare ciò che ha percepito o che il sentimento ha colto; talvolta alla parola viene imposto un corso obbligato dalle circostanze, non di rado di natura politica; talvolta la parola assume un significato completamente diverso da quello che aveva in precedenza. Incidentalmente ricordo, in proposito, l’arguta e altrettanto preziosa osservazione di due studiosi francesi, A. Ernout e A. Meillet, che nell’introduzione del loro dizionario etimologico della lingua latina osservano come i Romani, da buoni contadini, non buttassero via mai niente: ciò può spiegare come alcuni termini assumano significati diversi e apparentemente inspiegabili in epoche successive e come l’accezione lessicale dipenda anche dalle situazioni contingenti. Ma a parte questi casi, diffusi soprattutto nel linguaggio istituzionale, le parole suggeriscono sempre l’esito di una esperienza e di una storia. Ci possiamo perciò domandare cosa avesse in comune con l’esperienza cristiana gran parte del lessico latino pagano che venne accolto, non soltanto per necessità, per esprimere concetti e contenuti propri del Cristianesimo, considerando che la Vulgata di Gerolamo, risalente al IV secolo, rispecchia uno stadio dell’evoluzione della lingua latina preesistente e risalente al tempo in cui la predicazione del Vangelo fu rivolta ai Romani: quindi, in definitiva, al I secolo. La data è forse precisabile ricordando che gli inizi della predicazione di Paolo ai Romani coincidono probabilmente col suo primo viaggio, databile agli anni fra il 46 e il 48, che lo portò dapprima a Cipro, dove convertì il governatore romano Sergio Paolo e assunse egli stesso il nome di Paolo, e subito dopo nelle colonie romane della provincia d’Asia.
Un altro problema, cronologicamente anteriore, è costituito dalla corrispondenza della lingua greca al messaggio evangelico. La predicazione di Gesù avvenne in lingua aramaica ma è possibile che Egli si sia espresso anche nel dialetto della koiné (sebbene potesse farsi intendere in qualunque lingua), e la stesura di quasi tutto il Nuovo Testamento avvenne in lingua greca. Il greco, dunque, è la prima lingua ad offrire il supporto lessicale per la comunicazione evangelica. Inoltre, se teniamo conto della lenta evoluzione – lenta ma progressiva – di buona parte del lessico della lingua greca, dovuta alla recezione di nuovi significati e a tutte le altre probabili interferenze, dobbiamo anche pensare che molti concetti e molti contenuti della nuova fede cristiana entrassero a far parte del patrimonio lessicale della lingua greca ad un certo punto della sua evoluzione semantica. La continuità col pensiero greco-ellenistico e la risposta all’attesa, culturale e religiosa insieme, alimentata nei secoli che precedettero la venuta di Cristo da una tensione instancabile verso la conoscenza della verità, della quale le anticipazioni presenti nella letteratura greco-ellenistica richiamata da Paolo nel discorso agli Ateniesi di At 17 sono una risposta iniziale, doveva comprendere anche la continuità sul piano linguistico, e contribuiva, anch’essa, al raggiungimento della “pienezza dei tempi” (Gal 4,4).
Queste sono alcune premesse della ricerca condotta fin qui che emergono anche dalle relazioni presentate nel corso del Convegno. Venendo al tema del logos, la complessità dei significati assunti nel tempo dal termine logos nella cultura greca si approfondisce nel passaggio al contesto cristiano. Le valenze emblematiche inerenti alla “parola”, logos, come rivelazione oppure come identificazione della razionalità umana o della realtà presente e intelligibile o di una entità metafisica, mutano, pur mantenendo alcuni elementi stabili, e assumono un’esistenza singolare ed esclusiva. Dobbiamo domandarci quali connotati semantici determinarono l’uso del vocabolo presso i primi autori cristiani che lo identificarono con la persona stessa di Gesù Cristo; quali tramiti concettuali e storici hanno reso possibile tale accostamento lessicale; quali apporti intellettuali ed esistenziali provenienti dalla cultura giudaico-ellenistica furono fondamentali per l’uso di logos da parte dei padri apostolici e delle fonti posteriori; infine come adeguatamente comprendere il vocabolo Verbum nella trasposizione linguistica.
L’indagine storica e filologica intorno ad una questione di tale rilievo nasce dall’esigenza di continuare nell’approfondimento degli studi condotti fin qui. L’attualità dell’indagine trova conferma in numerose riflessioni elaborate dal Magistero ecclesiastico, che si è soffermato a considerare la concezione della razionalità in rapporto alla natura di Dio quale emerge dall’incontro del pensiero greco con il messaggio biblico. Di qui il titolo del Convegno: “Dal logos dei Greci e dei Romani al logos di Dio”.
Infine una breve notazione di metodo, apparentemente superflua ma che pare invece appropriata per chi affronta temi come quello che sarà oggetto precipuo del Convegno: il logos. Le fonti, di qualsiasi natura esse siano, vanno prima di tutto “ascoltate”, e l’interpretazione di esse non può essere condizionata da pregiudizi di alcun genere, col rischio, in tal modo, di perderne di vista il vero contenuto. Questo principio, non sempre rispettato nell’affronto dei problemi storici, è cruciale per procedere intorno al delicatissimo tema del logos.
A chiarirne il contenuto ci aiuta la sempre efficace ironia di Clive Staples Lewis e la consumata esperienza di Berlicche, che tranquillizza il diavoletto principiante preoccupato che persone particolarmente intelligenti leggessero i libri della sapienza degli antichi ed in tal modo potessero mettersi sulle tracce della verità, dicendogli: «L’unico problema che con sicurezza non si porrà mai è quello della verità di quanto si è letto; ci si interrogherà invece su influssi e dipendenze, sullo sviluppo dello scrittore interessato, sulla storia degli effetti della sua opera e così via». È auspicabile che non rappresenti per gli studiosi un impegno secondario smentire il diabolico ottimismo di Berlicche.
* docente di Storia romana