Hanno frequentato la scuola di giornalismo dell’Università Cattolica e sono in prima linea, su diverse testate, nel racconto della pandemia da Coronavirus. Ma testimoniano tutti insieme che i media, soprattutto online, restano ancora vitali. Le voci dei nostri reporter in una serie di articoli


Medici in prima linea, infermieri in trincea, guerra senza frontiera al virus: è da oltre un mese che l’Italia è stata messa in quarantena, ma col passare dei giorni non fa che rafforzarsi una narrazione bellica che prevede un costante utilizzo di un lessico conflittuale per descrivere la pandemia che stiamo vivendo. «Si tratta di una tipologia di linguaggio proiettato da forze politiche, non necessariamente di destra, che fomentano un desiderio di un cambiamento che va in direzione di un mondo diverso rispetto a quello che conosciamo; e una pandemia, con tutte le incertezze legate al presente e al futuro, è un’occasione straordinaria per instillare nella popolazione la necessità di un conflitto». 

A parlare è Laura Silvia Battaglia, giornalista che da anni si divide fra il suo lavoro di reporter di guerra, impegnata nei territori più turbolenti del medio-oriente, e quello di tutor del master in Giornalismo dell’Università Cattolica, accompagnando la crescita di molti di quei giornalisti che, proprio in queste settimane, lavorano senza sosta per raccontare il Coronavirus. E lei non è stata da meno. Oltre a riorganizzare il lavoro del master in via telematica, per un’intera redazione da 30 giornalisti praticanti, Battaglia ha continuato a lavorare sugli esteri, ma a parti invertite, raccontando cioè la situazione italiana a diverse emittenti internazionali; fra le tante, Al Jazeera e soprattutto la cinese CCTV. 

«C’è un forte interesse nel capire come viene percepita, in Italia, la Cina. Anche se, in generale, l’attenzione si è ormai spostata sugli Stati Uniti; ma fino a qualche settimana fa, dall’estero si apriva in continuazione sulla questione italiana: perché ci fossero così tanti morti ma anche perché, in Occidente, l’idea del lockdown sia partita proprio dal qui». 

Nei suoi racconti, Laura Silvia Battaglia non ha potuto non menzionare i flashmob e i cori intonati dai balconi di tutta Italia proprio durante i primi giorni di quarantena. Una reazione tipicamente italiana da parte della società civile, che in quest’ultimo periodo, dopo un sussulto iniziale, è andata tuttavia scemando. «Allontanare la paura della morte cantando è una reazione apotropaica, del tutto umana. Ma oggi non lo è più, perché purtroppo in ogni famiglia, specie nel Nord Italia, c’è qualcuno che piange un proprio caro». 

Quello della morte è un concetto inscindibile dal lavoro di ogni reporter di guerra, ed è di certo strano affiancarlo alla formazione di giovani aspiranti giornalisti. «Sono una persona cresciuta sapendo che la morte fa parte della vita, quindi ho sempre avuto uno sguardo positivo verso il mondo. Eppure, ho avuto anch’io i miei momenti di smarrimento, e il lavoro con i ragazzi mi ha aiutato tanto» confessa. «Molti colleghi dicono che non si possa insegnare questo mestiere; io invece credo il contrario. È proprio accanto alle persone più giovani che rinnovi il patto di passione con il giornalismo. Nel mio caso, il fatto di andare ogni giorno in redazione, parlare con i ragazzi e avere un obiettivo che non sia solo produttivo ma umano, nella trasmissione di certi valori come la passione per la professione, mi ha formato e aiutato molto».