Sono state finalmente individuate le cellule responsabili dei casi più gravi di artrite reumatoide. A firmare la scoperta, i ricercatori della Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica di Roma. Grazie alla loro intuizione le persone affette dalla grave malattia autoimmune, che non rispondono alle terapie oggi in uso, potrebbero beneficiare di nuovi farmaci e trattamenti più personalizzati. Le cellule colpevoli sono linfociti B “duri a morire” che, resistendo tantissimo alle cure standard, riescono a operare un danno molto più consistente alle articolazioni. L’importante risultato è frutto di uno studio condotto da Gianfranco Ferraccioli, docente di Reumatologia e responsabile dell’Unità operativa di Reumatologia dell’Università Cattolica- Policlinico A. Gemelli di Roma, pubblicato sulla rivista internazionale “Molecular Medicine”.
L'artrite reumatoide è una malattia infiammatoria cronica che colpisce in particolare le articolazioni, ma spesso coinvolge cute, occhi, polmoni, cuore, reni e peggiora progressivamente se non si interviene subito. Provoca dolore e gonfiore a mani, piedi, dita, ginocchia, gomiti e collo. Il processo infiammatorio causa l'erosione e la graduale distruzione della cartilagine e può arrivare fino all'osso. La malattia è causata da una risposta immunitaria anomala dell'organismo, che innesca un meccanismo di auto-distruzione dei tessuti articolari. In Italia 180.000-240.000 persone soffrono di artrite reumatoide.
«Il 25-30% dei pazienti ha una forma più grave di malattia e non trae un forte giovamento dalla terapia - ha spiegato il professor Ferraccioli - questi pazienti non vanno in remissione completa, quindi devono fare terapie sempre più aggressive».
Adesso è stato individuato il colpevole di questa prognosi più grave: si tratta di una particolare popolazione di linfociti B, che producono gli autoanticorpi tipici della malattia. Questi linfociti B più aggressivi sono identificabili in quanto espongono sulla propria membrana, come una “bandierina” di riconoscimento, una proteina particolare, chiamata “Zap-70”. Queste cellule non sono nuove ai medici perché sono presenti anche in alcune forme di leucemia (leucemia linfatica cronica) ed esistono già dei farmaci utilizzati nella malattia ematologica per combatterle. Il motivo della loro maggiore aggressività è che sopravvivono molto più delle altre cellule, producendo quindi un’infiammazione persistente e un danno articolare maggiore.
La scoperta è frutto di una astuta intuizione dei ricercatori della facoltà di Medicina dell’Università Cattolica di Roma: «Il nostro sospetto sul conto di queste cellule ha preso le mosse dal fatto che i pazienti con leucemia linfatica cronica in alcuni casi sviluppano malattie autoimmuni – ha aggiunto il professor Ferraccioli - quindi abbiamo pensato che potesse esserci qualche collegamento tra la leucemia e l’autoimmunità». Basandosi su ciò gli esperti hanno passato al setaccio tutti i linfociti B autoimmuni di vari pazienti con artrite reumatoide più o meno grave e visto che nei casi più gravi era, guarda caso, presente anche la cellula B malata contrassegnata da Zap-70 che si ritrova in alcune leucemie.
Il sospetto dei ricercatori ha dunque trovato conferma in questa verifica, aprendo la strada a nuove possibilità di cure sempre più personalizzate: «Stiamo studiando anche dei farmaci che possono attaccare queste cellule tramite la proteina Zap-70 che espongono al loro interno e che ci serve per riconoscerle – ha anticipato il professor Ferraccioli – questi farmaci sono già in uso per alcune leucemie, quindi l’iter di approvazione per il loro uso contro l’artrite reumatoide, se si dimostrassero efficaci contro di essa, sarebbe ben più breve. Queste cellule - ha concluso - non sono responsabili solo dell’aggressività dell’artrite reumatoide, ma anche in caso di altre malattie autoimmuni gravi come il lupus e la sclerodermia».