La locandina parla chiaro: «Non arrivi a 500 milioni di amici senza farti qualche nemico». Sullo sfondo, un dettaglio del volto di Marc Zuckerberg, il fondatore di Facebook. Si tratta di The Social Network, il film di David Fincher tratto dal libro di Ben Mezrich Miliardari Accidentali: la fondazione di Facebook, una storia di sesso, soldi, genio e tradimento. The Social Network inizia così: Marc Zuckerberg, lasciato dalla fidanzata, posta sul suo blog una serie di insulti contro di lei. Per vendetta, raccoglie tutte le foto delle ragazze delle università della città e, pubblicate su un database, chiede agli utenti di votarle. In due ore il sito tocca i ventimila contatti e va in crash. Stava per nascere Facebook. Oggi, sette anni dopo, il social network per eccellenza ha più di 500 milioni di utenti: se fosse uno Stato, sarebbe il più popoloso dopo Cina e India. Facebook è diventato il capogruppo dei social media, seguito a ruota da Twitter e YouTube. «Da un punto di vista psico-sociale, possiamo dire che i social network rappresentano la prima forma di knowledge management efficace che riesce a sfruttare le conoscenze implicite dei soggetti nella rete, a condensarle e a renderle visibili», spiega Giuseppe Riva, docente di Psicologia della comunicazione e Psicologia e nuove tecnologie della comunicazione in Università Cattolica e autore del libro II social network (Il Mulino).
«Se analizziamo la storia del computer, ci accorgiamo che è nato come strumento di calcolo. Progressivamente, con l’e-mail, è diventato uno strumento per comunicare. Con i social network ha reso visibili le conoscenze implicite presenti all’interno di un gruppo. Rendendole tali, riesco a sfruttarle - continua Riva -. Nel film, è evidente come i social media rappresentino un’ulteriore evoluzione. È chiaro che per sfruttare il potenziale dei social network bisogna accettare dei compromessi. Il processo di condivisione della conoscenza è lasciato al singolo: in Facebook sono io che racconto chi sono. I miei amici, poi, possono commentare ed eventualmente smentirmi. Per contro, sono io a decidere chi inserire tra i miei contatti», dice Riva.
Prima di The Social Network, nel 1983, un altro film raccontò le potenzialità dell’informatica: in Wargames di John Badham un ragazzo, abile e promettente hacker, riesce a introdursi nel sistema informatico blindato del Pentagono. «Il passaggio da Wargames a The Social Network - puntualizza Riva - evidenzia un cambiamento nel modo di intendere il computer: da calcolatore a strumento in grado di organizzare la conoscenza». Per questo, oltre a trovare spazio nella vita privata, i social network sono sempre più spesso impiegati negli spazi della formazione e della didattica, come spiega Pier Cesare Rivoltella, docente di Tecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento all’Università Cattolica: «Il social network consente di intercettare e risolvere uno dei problemi più consistenti che incontra chiunque oggi si occupi di tecniche di apprendimento, ovvero la distanza che esiste tra i modi di apprendere nell’informale e nei contesti educativi formali». «La scuola - continua Rivoltella - ha sempre più difficoltà a motivare gli studenti. Il problema è che si continua a insegnare come se i giovani apprendessero come una volta. Ma nell’informale le modalità dell’acquisizione della conoscenza sono completamente cambiate, spinte e supportate proprio dalla diffusione dei social media». Oggi i ragazzi sviluppano competenze diverse apprendendo in maniera diversa. Dove? «Nei social network e nelle loro relazioni tra pari. Facebook dovrebbe essere utilizzato per la didattica». I modelli su cui puntare, secondo Rivoltella, dovrebbero essere informali, indiretti, basati sul peering (lo scambio tra pari). Modelli che apparentemente non hanno nulla a che fare con l’apprendimento, ma che in realtà danno ottimi risultati.
«È fondamentale offrire ai ragazzi attività motivanti, che non sembrino legate alla didattica tradizionale», prosegue il docente. Se i professori aprono un gruppo sul network, su quei contenuti gli studenti producono commenti, rendendo Facebook uno strumento informale sociale utile per costruire percorsi formativi. «Purtroppo - chiarisce Rivoltella - questi mezzi sono ancora poco utilizzati». Le cause vanno ricercate nella paura che ancora circonda i social network, un timore alimentato dai media tradizionali che, per ragioni di notiziabilità, ne enfatizzano gli aspetti negativi. Inoltre, spesso i docenti sono pigri. Aggiunge il professor Rivoltella: «Se perpetuo modelli tradizionali, dopo i primi anni di insegnamento posso innestare il pilota automatico e vivere di rendita. Se invece devo rideclinare tutti i miei contenuti didattici e rivedere la mia strategia di insegnamento per adeguarla ai nuovi canali di comunicazione, devo fare la fatica di aggiornarmi, di convertire tutti i materiali nei nuovi formati, di presidiare quegli spazi. Non lavoro più solo nelle ore delle lezioni: creo un canale di comunicazione con i miei studenti che, potenzialmente, è aperto 24 ore su 24».
Gli insegnanti che già lo fanno ne sono contenti e anche gli studenti sono soddisfatti: l’adulto che usa i loro strumenti è automaticamente più credibile. Se chi ho davanti conosce i miei temi, si sa muovere nei miei spazi, ha più probabilità di capirmi veramente». I social media, negli ultimi anni, hanno conquistato il proprio spazio anche nelle aziende, impiegati sia per la comunicazione esterna che per quella interna. Un numero sempre crescente di imprese sta investendo nel settore battezzato Social Business o Enterprise 2.0 per creare una serie di strumenti per proporsi verso l’esterno, facendo quello che viene chiamato marketing virale, e verso l’interno, per migliorare la collaborazione, la formazione, la ricerca, lo sviluppo e l’innovazione. Il tutto, appunto, attraverso i social network. Si possono ascoltare i propri dipendenti ma anche gli utenti, che danno consigli e opinioni sul brand, entrando così a far parte del processo di creazione e produzione.
«Il mondo del social media marketing - spiega Giuseppe Riva - rappresenta un’opportunità interessante. A lungo le aziende si sono basate sul modello persuasivo, quello classico della pubblicità, che permetteva di incidere nell’immaginario del consumatore attraverso un messaggio forte. Oggi, soprattutto nelle fasce d’età più giovani, il modello televisivo non è più coinvolgente come in passato. Un elemento fondamentale nella scelta dei singoli è trovare un riscontro in rete: se un mio amico usa un certo prodotto, è molto probabile che io decida di imitarlo. Molto di più di quanto farei dopo avere visto uno spot, perché in rete la voce rimbalza e si diffonde molto rapidamente». Per un’azienda può essere utile monitorare on line la posizione e l’opinione che hanno le persone per riuscire a cogliere i suggerimenti e a identificare possibili minacce. A oggi, stanno emergendo due fenomeni. Da una parte, ci sono gli esperti nel monitoraggio dei social media che li impiegano come strumento indiretto di analisi del mercato: la rete, se opportunamente analizzata, può fornire informazioni su gusti e tendenze degli utenti. Dall’altra parte, c’è chi usa i social media per produrre cambiamenti nelle abitudini del consumatore e lo fa con approcci indiretti. Un buon esempio sono i video virali che impazzano su Facebook. Lo spot classico, quello invasivo, si trasforma in un filmato intrigante e curioso che vale la pena di condividere con altri.
Le dinamiche cambiano così velocemente che «questo processo rischia di non trovare nemmeno nel mondo accademico una risposta adeguata», denuncia Riva. A questo scopo sono nati, per esempio,Google Trend e Liquida, aggregatori che analizzano il contenuto del web per rilevare l’andamento delle discussioni relative a una determinata tematica. Le analisi di Google Trend e di Liquida, però, sono quantitative, e si basano sul confronto tra parole chiave: con il loro approccio descrittivo, non dicono molto sul perché. Per questo, nel mondo delle ricerche di mercato esistono strumenti molto più sofisticati, non gratuiti, volti a connettere tutte le informazioni, anche quelle contenute in Facebook. Si tratta di un tipo di indagini più approfondite in grado di scandagliare molte pagine private del social network.
Collocarsi fuori da queste dinamiche di mercato risulta oggi molto rischioso. Per un’azienda, creare una barriera con i suoi clienti è deleterio come per un professore innalzare un muro tra sé e gli studenti. I problemi sono gli stessi nei due campi: alla base ci sono i grandi limiti dati dalla scarsa formazione tecnologica. Secondo Rivoltella, molte aziende ormai adottano corporate blog o corporate wiki con grande naturalezza. Sono soluzioni che costano molto meno dei sistemi di intranet aziendale, per esempio. In più, una intranet è verticale, top down, mentre gli strumenti del social network sono sicuramente bottom up. «Purtroppo - osserva -, c’è ancora molto da lavorare sull’uso dei social media, ne manca ancora la coscienza: il sistema sociale è in ritardo rispetto alla comprensione del potenziale». Sui media tradizionali si usano ancora termini come nativo digitale, si contrappone ancora il virtuale al reale: «In realtà – sottolinea Riva - questi sono concetti sepolti. I nuovi media sono alfabetizzanti, ci si impadronisce velocemente dei loro linguaggi, li si domina in fretta. Lo sanno bene soprattutto i giovani,
ma questo non significa che non ci sia bisogno di accompagnamento, di costruzione di usi consapevoli, di abilitazione delle responsabilità. Paradossalmente, oggi c’è ancora più bisogno di un intervento e di una mediazione educativa».
A metà ottobre la London School of Economics ha diffuso i risultati di una ricerca, condotta su 23 mila ragazzi di 25 Paesi europei, su rischi e opportunità della rete. Dall’indagine emerge che il 12% dei giovani è turbato dalla rete.Giovanna Mascheroni, docente all’Università di Torino e collaboratrice dell’Osscom, il Centro di ricerca sui media e la comunicazione dell’Università Cattolica, che ha intervistato il campione italiano, commenta così il risultato: «L’esposizione ai rischi, fortunatamente, non si traduce sempre in esperienze dannose: il pericolo e le opportunità su internet crescono proporzionalmente alla frequenza d’uso. I giovani hanno, comunque, dimostrato di concepire la rete come risorsa per l’apprendimento e la conoscenza, per l’informazione, la partecipazione, la socialità, per lo sviluppo dell’identità e della personalità, soprattutto per la creatività, la possibilità di produrre contenuti autonomi, ovvero generati dagli utenti, come blog, poesie on line e video».
Non va sottovalutata la capacità di reagire di fronte al turbamento. Solitamente l’adolescente sceglie di parlare coi genitori, con gli amici o con gli insegnanti. Ma alcuni di essi, optano per una soluzione più “tecnologica”: bloccare il contenuto o l’utente indesiderato. «Tra le esperienze potenzialmente dannose, la più diffusa è l’interazione con qualcuno che non si conosce. In secondo luogo l’entrare in contatto con materiale pornografico. Seguono poi i siti che incitano alla violenza, all’anoressia, all’autolesionismo, al consumo di sostanze stupefacenti, al suicidio. Il bullismo e gli incontri off line con persone conosciute on line sono le esperienze meno diffuse, ma sono quelle che potenzialmente provocano più danni». C’è anche un dato positivo: quanto a esposizione ai rischi, in Italia, in Portogallo e in Germania il pericolo è più basso che altrove. Contemporaneamente, però, è uno dei Paesi in cui ci sono meno competenze digitali. L’evoluzione attuale dei social media cerca di supplire a questi rischi. Agli albori delle comunità virtuali, nelle chat e nei forum, non c’era la sicurezza su chi fosse l’interlocutore. Oggi, invece, si tende a conoscere solo persone in qualche modo collegate alla rete sociale di appartenenza, in un continuo processo di interazione che permette la reciproca e approfondita scoperta. «Da qui - specifica Riva - deriva l’introduzione del concetto di gradi di relazione. In termini di contatti intermedi è evidente che ci siano diversi gradi di separazione e l’idea da cui è nato il primo social network è proprio questa: creare un sistema di dating on line in cui potersi contattare solo
persone non più lontane di tre gradi di separazione. Posso, quindi, contattare soltanto l’amico dell’amico del mio amico e chiedere informazioni dal vivo a una persona che conosco». Il social network, insomma, nasce per garantire a tutti la possibilità, all’interno di una rete chiusa, di verificare se l’altro è davvero chi dice di essere.
Sin dall’inizio i social network si presentano come strumento per creare reti chiuse, controllate e garantite. Oggi, con l’avvento del social media marketing, l’amicizia ha assunto un valore commerciale. L’amicizia può influenzare, diventa spot: più la mia rete è grande, più cresce il mio potere persuasivo. Facebook, di conseguenza, non ha interesse a limitare le reti, mentre, dal punto di vista dell’utente finale (vista anche la risibilità delle norme sulla privacy del social network) potrebbe essere utile distinguere tra gli amici. Prosegue Riva: «Accettare come amici anche persone sconosciute ha un po’ alterato quella che era la logica del social network, estremizzando le conseguenze, sino all’abuso. Accettare come amici persone che non lo sono veramente non mi tutela, in termini relazionali, come invece accadrebbe se fossero amici veri. Proprio per evitare queste situazioni, Facebook ha recentemente introdotto i gruppi. All’interno di essi, un numero limitato di amici ha particolari possibilità di condivisione e accesso. Addirittura, è appena nato negli Stati Uniti un nuovo social network che limita il numero di amici a 50, in modo tale che sia usato soltanto da una vera rete amicale, da persone con la possibilità di vedersi con una certa continuità».
Il mondo virtuale, così, va sempre più intrecciandosi con quello reale, annullando la distinzione perché oggi la mia rete sui social network è la mia rete reale. Una volta c’era Second Life: conclusa l’esperienza in una realtà alternativa, si rientrava in casa chiudendo fuori il virtuale. Ora, invece, con i social network si sviluppano contatti che hanno un impatto concreto sulla vita reale. «Il network sociale - conclude Rivoltella - mi serve per prolungare la presenza, non per raccogliere lembi dispersi di una rete di amici grande quanto il mondo. È un cambiamento culturale molto significativo: oggi vado in rete non per abbattere i limiti fisici, ma per starci dentro. I nostri usi della rete sono localizzanti. I casi in cui la usiamo per agganciare persone lontane sono funzionali ed episodici».