Oltre il 40% delle aziende sanitarie pubbliche presenti sul territorio nazionale ricorre ancora a metodologie tradizionali di calcolo dei costi. E nei processi decisionali e di controllo il management sanitario usa ancora poco le informazioni dei sistemi di contabilità analitica, considerate perlopiù inutili anche ai fini di un miglioramento delle performance economico-finanziarie. È quanto emerge dall’indagine del Centro di ricerche e studi in Management sanitario (Cerismas) dell’Università Cattolica sull’impiego delle informazioni di contabilità analitica in sanità pubblica. I dati complessivi dell’indagine, condotta sull’universo delle 284 aziende sanitarie pubbliche da Manuela S. Macinati ed Eugenio Anessi Pessina, rispettivamente docenti di Economia aziendale e Analisi di bilancio alla facoltà di Economia della sede romana dell’Università Cattolica, sono stati presentati mercoledì 13 aprile nel corso del seminario: Decidere sulla base delle ‘evidenze’ in sanità: il ruolo della contabilità analitica, promosso dal Cerismas congiuntamente con il Dipartimento di Scienze dell’Economia e della Gestione Aziendale dell’Ateneo del Sacro Cuore.
La ricerca Management accounting e risultati aziendali in sanità, realizzata tra giugno e settembre 2009, ha ottenuto un tasso di risposta concentrato soprattutto nel nord Italia (54,1% contro il 21,9% del centro e il 24percento del sud), così suddiviso: 55% Asl, 28% Aziende ospedaliere, 12% Aziende ospedaliere universitarie, 4% Irccs e 1% dei centri di ricerca. Punto di partenza dello studio, come hanno raccontato i ricercatori durante la presentazione, è stato capire in quale misura la contabilità analitica, quel sistema che consente di conoscere nel dettaglio i dati elementari di costo e ricavo specificando, per esempio, la provenienza di un acquisto o la destinazione di una vendita, è impiegata dalla direzione aziendale e qual è l’impatto del suo utilizzo sulle performance economico-finanziarie. Ne è emerso un quadro interessante che la dice lunga sul fatto che nelle aziende sanitarie pubbliche, soprattutto in quelle di alcune regioni come Lazio, Puglia, Sicilia, Toscana, Campania e Emilia Romagna, l’uso della contabilità analitica risponde più a esigenze specifiche, prima fra tutte di riduzione dei costi, che non a fini decisionali o a strategie orientate a migliorare il rapporto con il paziente e la qualità del servizio.
Così, dando uno sguardo dettagliato all’indagine, risulta che la frequenza del reporting, in meno della metà delle aziende sanitarie pubbliche, spesso coincide con esigenze di rendicontazione formale. Non solo. Lo studio mette in luce la scarsa capacità del management sanitario di utilizzare i sistemi di contabilità analitica nei processi decisionali. Come se non bastasse, le aziende rispondenti mostrano un livello di soddisfazione nei loro confronti alquanto moderato. Infatti, giudicano il contenuto, l’accuratezza e il formato dei dati moderatamente coerenti con i loro fabbisogni informativi e danno una valutazione negativa rispetto alla tempestività e all’aggiornamento delle informazioni.
Il quadro, poi, diventa preoccupante se si considera il grado di utilità che gli alti vertici manageriali attribuiscono alla contabilità analitica. Le aziende rispondenti la considera sostanzialmente inutile sul fronte decisionale. Nonostante tutto, dichiarano di ricorrere a essa per il perseguimento di obiettivi legati al contenimento dei costi, in particolare di alcune classi di fattori produttivi – fra cui il personale, la farmacia, gli acquisti di beni -, ma non per ridurre i costi di coordinamento tra i diversi servizi e per il conseguimento di obiettivi legati alla qualità e al miglioramento del rapporto con i pazienti. A tutto ciò, infine, si aggiunge un ultimo dato rilevante. L’impiego della contabilità analitica non sembra per niente in grado di influenzare i risultati aziendali: la ricerca mostra l’inesistenza di una relazione statisticamente significativa tra il suo utilizzo e le performance aziendali di ordine economico-finanziario. Un riscontro oggettivo, insomma, che questo strumento nel suo complesso stenta a decollare nella sanità pubblica e, come ha osservato il professor Anessi Pessina, è considerato più utile “per controllare” che “per decidere”.