di Ruggero Eugeni*

Nel suo ultimo film Che strano chiamarsi Federico, del 2013, Ettore Scola sembra mettere in scena un commosso omaggio all’amico e sodale Fellini: l’arrivo a Roma, la redazione del Marc’Aurelio e i primi lavori, le scorribande notturne per Roma. A ben vedere tuttavia, il vero protagonista del film è proprio Scola che, con un gioco di sponda sulla figura di Fellini, parla di fatto di sé, delle sue prime esperienze nelle redazioni delle riviste satiriche romane, del mondo della rivista prima e poi del cinema che ha unito una generazione di grandi autori.

Parla di sé, ma sempre come sullo sfondo, o tra le righe, e comunque con estremo pudore. Il cinema di Scola ha spesso questa cifra di ritrosia, questo senso di intimità celata e di autobiografismo travestito. Scola non parla mai esplicitamente di sé – e rappresenta su questo punto l’esatta antitesi dell’amico Fellini, geniale e cialtrone narcisista sempre pronto a occhieggiare dallo scherno e dietro le maschere dei suoi attori feticcio, in particolare Mastroianni. Scola preferisce invece restare dietro le quinte e moltiplicare piuttosto i propri portavoce in opere filmiche corali: il gruppo di amici che in C’eravamo tanto amati (1974) vivono illusioni e disillusioni del nostro dopoguerra; lo sterminato cast che ne La famiglia (1987), ripercorre ottant’anni di vita nazionale; la folla di intellettuali di sinistra de La terrazza (1980), e così via. Ma al tempo stesso è capace di rifuggire dalla folla per opere che indagano l’intimità di alcuni rapporti: quello tra la giovane ma già sfiorita madre di famiglia e l’omosessuale durante la visita di Hitler a Roma del 1938 in Una giornata particolare (1977), o quella tra un padre e un figlio in Che ora è? (1980).

Un cinema velatamente autobiografico, dunque? Un cinema corale? Un cinema dell’intimità? Il cinema di Scola è stato tutto questo insieme, perché mosso da una idea specifica: il cinema è stato per lui il mezzo (l’unico mezzo realmente praticabile a questo scopo) per costruire l’autobiografia intima di una nazione. Non una autobiografia di fatti dunque, ma piuttosto di forme del sentire, di memorie e di sentimenti comuni. Un album di famiglia che scava negli odori, negli umori, nelle parti sensibili del nostro Paese e li restituisce allo spettatore di cinema rendendolo per ciò stesso un po’ più parte di una comunità civile. È questa la ragione per cui Scola si è sempre un po’ nascosto nei suoi affetti e nei suoi dati autobiografici: non perché non gli importassero, ma perché gli importavano in quanto parte di un sentire più ampio e diffuso.

Ed è anche per questo che un film come Che stano chiamarsi Federico è anche un film malinconico e a tratti sgomento: i cinema stanno chiudendo (come lo Splendor del suo omonimo film del 1989), il cinema sta divenendo altro, le forme del sentire che ci accomunano non trovano più un luogo forte di messa in scena, e non siamo ancora in grado di valutare le conseguenze che tutto ciò potrà avere sulla nostra vita civile.

*Direttore ALMED - Alta Scuola in Media, comunicazione e spettacolo, Università Cattolica