di Francesca Amila Fernando Tenorio * e Carlotta Perrotta **

Ogni giorno l’attività da svolgere alla scuola materna ed elementare “El Girasol” era scandita da ritmi mattutini ben precisi: sveglia, colazione a fianco di suore già operative, spostamento nel messicano freddo pungente delle prime ore, accoglienza a scuola e successive ore di supporto alle maestre dell’asilo e di ripetizioni di inglese ai bambini delle elementari più in difficoltà.

Un ritmo a cui ci siamo adattate benissimo: l’arrivo a scuola dei piccini e il loro intrattenimento iniziale nell’attesa che arrivassero tutti; l’organizzazione di attività ludiche e quelle di insegnamento; l’aiuto ai professori di inglese e di musica durante le loro lezioni. Tutte attività che nel corso dei giorni si sono dimostrate sempre più facili: questo soprattutto grazie alla grande capacità delle maestre che avevamo al nostro fianco, Liz e Eli, dotate di grande amore, pazienza e carisma.

Così, grazie a loro, abbiamo imparato a gestire le varie difficoltà dei più piccoli: a decifrare le loro parole non ben definite, a capire i loro sguardi, i loro pianti, le loro emozioni; a gestire quelli più legati alla mamma (perché sì, con bambini di 3 e 4 anni ne è possibile eliminare questo attaccamento); a lasciare più autonomia a quelli che, invece, erano più indipendenti.

Nell’imparare tutto ciò siamo, fortunatamente, riuscite a insegnare loro anche piccole cose, come scrivere i primi numeri o, addirittura, il loro nome in maniera parziale.

Durante gli intervalli eravamo le prime a prenderli per mano e a giocare con loro: a volte persino intonando canzoncine italiane che risuonavano dalla nostra infanzia.

La nostra infanzia è stata ben diversa dalla loro: lo abbiamo potuto notare dai loro genitori, in primis. Nonostante i bambini venissero a scuola in uniforme, tutti uguali e ben pettinati, al momento dell’uscita dalla scuola erano proprio i loro parenti a dimostrarci la reale situazione familiare, soprattutto a partire dagli indumenti in generale poco curati o ben tenuti. Così si spiegavano, forse, alcuni dei comportamenti dei piccini: forse troppi in famiglia? Forse troppo poco presi in considerazione? Forse non ben educati e per questo incapaci di usare le posate?

Ciò non toglie che, durante il momento della merenda- che portavano da casa (e che merenda! dato che si trattava di un “lonche”, cioè di una seconda colazione con tanto di uova, pasta, wurstel e frutta) tutti i bambini fossero ben nutriti, a volte perfino in maniera esagerata.

Ma i bambini sono bambini, ovunque: il loro modo di amare e di essere così trasparenti nelle loro emozioni è comune in ogni parte del mondo. E di questo ne sono stati dimostrazione alcuni bambini della classe di Francesca, come Julieta, che non si staccava mai; Angel, che durante le lezioni di musica, poiché impaurito dalla stanza, non le lasciava mai la mano, sicuro che lei lo avrebbe protetto; Kaleb che, nonostante venisse sempre ripreso per il suo comportamento “vivace”, appena saputo della sua partenza, continuava ad abbracciarla; ma anche Niko, nella classe di Carlotta, che aveva sempre bisogno di un suo abbraccio per iniziare la giornata.

La povertà era però ben tangibile: affacciandoci alla finestra vedevamo case che erano sprovviste di finestre e di porte. Inoltre, molti bambini del quartiere, a causa delle loro difficoltà economiche, non potevano permettersi nemmeno la frequenza a una scuola pubblica: ecco spiegato perché li si poteva veder giocare per strada a qualsiasi ora del giorno.

Tutto il quartiere e, in generale, la periferia in cui ci trovavamo, era ed è povera: negozi e ristoranti improvvisati dentro garage; strade estremamente dissestate; venditori ambulanti di cibi e bevande a ogni angolo.

A questa difficile situazione si oppone, come in ogni dove, il centro, più ricco e sviluppato, pieno di turisti e di negozi più occidentali.

Ciò che ha realmente colpito entrambe è stata l’accoglienza dei messicani: il loro modo di includerci nelle varie attività, nel proporsi per esperienze anche esterne al contesto scolastico, la loro allegria e volontà di conoscerci; la loro cordialità e il sorriso sempre presente sul viso, nonostante la povertà generale.

Tutto ciò è stato reso ancora più evidente dalla festa a sorpresa organizzata, sia dai bambini che dai professori, per il nostro ultimo giorno di scuola, durante il quale siamo state deliziate da cartelloni di addio e cibo a volontà.

Pensiamo che quest’esperienza, purtroppo di brevissima durata, ci sia entrata nel cuore: la povertà di cui siamo state testimoni è davvero comune alla maggior parte delle famiglie messicane. Quasi non esiste un ceto medio, bensì solo uno estremamente ricco e uno medio-povero. La gente si accontenta del poco che ha, che è davvero poco.
 
Molti bambini non vengono nemmeno mandati a scuola. E quelli che frequentano le scuole pubbliche, anche quelli più grandicelli, non hanno una minima conoscenza non solo dell’inglese, ma a volte anche dei rudimenti grammaticali dello spagnolo.

Eppure, tutti sorridono. Sì, sorridono e ti accolgono con calorosi benvenuto. Persino noi, estranee in casa di estranei, siamo state accolte come amiche di famiglia.

È stato un viaggio pieno di sorprese: un’avventura in una realtà diversa dalla nostra; in una cultura meravigliosa; in uno Stato povero, in cui un aiuto è necessario. Un viaggio che ci ha cambiate nel profondo: quasi come se ci avesse regalato la possibilità di vedere un nuovo e bellissimo modo per amare il prossimo.

* 23 anni, secondo anno della laurea triennale in Scienze linguistiche per le relazioni internazionali, interfacoltà Scienze linguistiche - Scienze politiche, campus di Milano
** 23 anni, primo anno della laurea in Scienze politiche e sociali, facoltà di Scienze politiche e sociali, campus di Milano