di Alessio Musio *


I soldi non possono comprare tutto, come diceva M. Sandel in un suo libro di qualche anno fa, una sorta di denuncia di come ormai il denaro e il mercato abbiano investito ogni ambito della nostra società sfruttando la potenza ambivalente dei desideri umani. A questa dinamica non si sottrae neppure la generazione umana che, anzi, è diventata il terreno fertile di un mercato tanto globale quanto inumano. Spermatozoi, ovociti e uteri sono oggetto, infatti, di continue transazioni economiche. A essere in vendita sono anche i figli, nonostante la strategia preveda che il pagamento riguardi soltanto la capacità gestazionale di chi dà alla luce, su commissione, un figlio pensato e vissuto – anche per non sentire il peso del distacco – come un "prodotto".

È questo lo scenario da cui ha preso le mosse il convegno, organizzato dal Centro di Ateneo di Bioetica, dal titolo: “Maternità surrogata. Tra antropologia e mercati dei desideri” (22 marzo), al quale hanno contribuito la giornalista Marina Terragni, la filosofa morale Rossella Bonito Oliva, e il filosofo politico Luca Paltrinieri, in un dialogo con il direttore del Centro Adriano Pessina.

A fare da sfondo del convegno la ricerca-provocazione di due autrici australiane, Melinda Cooper e Catherine Waldby, in cui non solo si documenta come il mercato della maternità surrogata segua di fatto linee di classe e di razza (tra costosissimi ovociti di giovani donne dai tratti somatici nordeuropei e uteri a più basso costo di madri surrogate indiane e di colore), ma si imputa proprio alla bioetica di essere diventata l’istanza di legittimazione di questo mercato.

Scopo del convegno è stato così anche quello di decostruire tale rappresentazione, smascherando un desiderio che – come ricordato da Pessina – più che del figlio è un desiderio del puer, ossia del bambino, quasi si trattasse di un soggetto mai destinato, nelle intenzioni di chi ne senta la mancanza, a diventare adulto.

Il ruolo della bioetica si mostra in proposito insostituibile, non solo per arginare la trasformazione da cittadini in globali consumatori di vita – così Bonito Oliva –, ma anche per denunciare le inconsistenze delle metafore altruistiche con cui si tenta di presentare la maternità surrogata, cambiandole persino il nome attraverso la più rassicurante, ma in realtà mistificante, espressione "gestazione per altri". Come evidenziato da Terragni, infatti, la letteratura femminista rappresenta un punto di vista prezioso per decostruire questo tipo di approcci che assegnano alle donne e alla loro corporeità un ruolo sacrificale rispetto ai desideri altrui, quando proprio le ricerche scientifiche sulla creazione di un utero artificiale possono essere interpretate come un tentativo di disinnescare le resistenze femminili al mercato gestazionale.

Il fatto che persino la maternità sia ormai diventata una forma di lavoro non è però casuale, ma rientra in una precisa strategia economica – ricostruita da Paltrinieri – in cui il corpo è pensato come proprietà imprenditoriale e i figli sono beni commerciali, con un tariffario di prezzi che cambia sulla base delle disponibilità monetarie e del grado di soddisfazione dei genitori-acquirenti.

Un convegno che, collocandosi nelle ricerche del Centro di Ateneo di Bioetica sul significato della generazione umana e della sua delega alla tecnologia, ha inteso ospitare interlocutori di varie discipline e con sensibilità culturali diverse, nell’intento di risvegliare le coscienze. Non solo per il carattere inumano del mercato della maternità surrogata, ma anche per ciò che essa implica in relazione al significato della relazionalità umana, dell’auto-rappresentazione dell’uomo e della qualità della democrazia.

* docente di Filosofia morale in Università Cattolica