"Solo sapendo da dove vengo posso decidere dove andare". I figli adottivi che in molti casi non conoscono le proprie origini, una volta diventati grandi, spesso si trovano a fantasticare sui loro genitori di nascita e non di rado desiderano conoscere di più e andare alla ricerca. Un diritto garantito da una legge del 2001 ai soggetti adottati in Italia, una volta raggiunti i 25 anni. Ma che molto difficilmente diventa una possibilità concreta per chi arriva dall’estero perché entrano in gioco le normative vigenti nello stato di nascita.

Una recente ricerca esplorativa promossa dall’Istituto degli Innocenti di Firenze e finalizzata a fornire una prima quantificazione del fenomeno, ha rilevato il numero delle richieste di accesso alle informazioni relative alle proprie origini presentate dalle persone adottate (nel periodo compreso tra il 1 gennaio 2009 e il 31 dicembre 2011).

L’indagine, che è stata presentata da Raffaella Pregliasco il 13 e 14 febbraio nel corso del convegno “Allargare lo spazio familiare: essere figli nell’adozione e nell’affido” promosso dal Centro di Ateneo “Studi e Ricerche sulla Famiglia” (di cui parliamo qui a fianco), ha preso in considerazione 15 Tribunali per i minorenni che hanno fornito i dati.

Sono state presentate 513 domande di accesso alle informazioni sulle proprie origini, di cui 398 risultano concluse nel periodo considerato con il seguente esito: 233 sono state accolte (e quindi sono state trasmesse le informazioni contenute nei fascicoli), le altre rigettate o ritenute non ammissibili perché i genitori risultavano ignoti o non avevano riconosciuto il figlio (117 casi).

A livello giuridico è in corso in Italia un ampio dibattito sulla delicata questione relativa ai soggetti che chiedono di conoscere le proprie origini ma le cui madri al momento della nascita hanno chiesto di non essere nominate. Fino ad oggi questi figli vedevano la propria istanza rigettata, come emerge dalla ricerca. Le proposte di modifica della legge si differenziano tra loro in quanto collocano su posizioni diverse il punto di equilibrio tra il diritto del figlio di avere accesso alle informazioni che riguardano la sua origine e il diritto della donna di poter rimanere nell’ombra.

Nella stragrande maggioranza dei casi sono gli stessi adottati a presentare domanda: la motivazione solitamente riportata è relativa al bisogno di una maggiore conoscenza delle proprie origini, della propria storia personale nel periodo precedente all’adozione e sapere qualcosa in più circa le ragioni dell’abbandono.

«Come emerge anche da altre ricerche, ad avviare le pratiche in maggioranza sono donne - commenta Rosa Rosnati, docente di Psicologia dell’adozione e dell'affido in Università Cattolica -, spesso a seguito di una transizione familiare e personale significativa (matrimonio, nascita dei figli, morte dei genitori adottivi). Assai più raramente viene indicato il desiderio di conoscere l’identità della madre e quella di avere informazioni su eventuali fratelli. Il bisogno di fondo in questi casi è quello di dare un volto».

Certo è che la ricerca delle origini, come emerge da alcune ricerche e dallo studio longitudinale di Rotterdam condotto da Wendy Tieman (in cui sono stati seguiti nel tempo 3.519 bambini dal momento dell’inserimento in famiglia fino ai 24-30 anni), nella maggior parte dei casi non si innesta in un quadro di relazioni tra adottato e genitori adottivi problematico, anzi. A volte sono proprio le buone relazioni e un dialogo aperto sulle tematiche adottive a “consentire” all’adottato di affrontare anche questo non facile passo.

Ciò su cui convergono le ricerche psicologiche e la pratica clinica è il bisogno dell’adottato di poter trovare nel tempo e con l’aiuto soprattutto dei genitori il filo rosso della propria storia e di poter connettere il presente con il passato, di poter dare parola a ciò che è successo nella sua vita, per poter guardare al proprio futuro. E questo è un percorso squisitamente interiore.

L’importanza e la rilevanza delle relazioni famigliari è stata messa chiaramente in luce dalla ricerca longitudinale condotta grazie alla collaborazione tra il Centro d'Ateneo “Studi e Ricerche sulla Famiglia” e “Il Cerchio”, Centro Adozioni dell’ASL Milano 1, con l’obiettivo di monitorare lo sviluppo del bambino e la costruzione dei legami familiari durante il primo anno di inserimento nella famiglia adottiva. Sono stati seguiti per un anno tutti i bambini adottati e le loro famiglie, per un totale di 60 famiglie. È una ricerca unica nel panorama nazionale.

«Quello che emerge - spiega la professoressa Rosnati - è che a partire da uno svantaggio iniziale, riconducibile alle condizioni sfavorevoli di vita in cui hanno vissuto fino a quel momento (istituzionalizzazione anche prolungata, trascuratezza, e così via), i bambini mostrano un sorprendente sviluppo cognitivo ed emotivo, una volta inseriti in un contesto familiare capace di dare loro cura e contenimento. La ricerca offre una prima panoramica del processo di costruzione dei legami familiari e del loro impatto sulla crescita dei figli: molto sinteticamente, potremmo dire, rende visibile e "misurabile" il fattore famiglia».