Quale miglior tragedia, se non l’Amleto, può risultare efficace per affrontare il problema della dialettica tra il mondo del vedere e il mondo dell’udire che contraddistingue ogni secolo? Se ne è parlato all’incontro inaugurale dei Seminari Letteratura & Musica. E protagonista del dialogo fra queste due arti è stata l’opera di Shakespeare.

Per il grande scrittore inglese «il rapporto con la musica è sempre stato fortissimo», ha evidenziato in apertura il professor Enrico Reggiani. L’Amleto non è solo tragedia dell’essere, ma anche la «tragedia dell’udire»: «in un teatro dominato dalla parola come quello di Shakespeare, è ovvio che il centro sensoriale sia l’udito», ma proprio nel momento in cui Shakespeare lavora su questo personaggio risulta evidente l’inaffidabilità dell’esperienza dell’udito. E non a caso le ultime parole di Amleto prima di morire, «the rest is silence», rappresentano l’inequivocabile chiusura del mondo legato all’udito, che lascia spazio al senso della vista.

Anche Fabio Vittorini, che collabora con la Fondazione Milano per la Scala ed è docente Iulm, si è occupato di Shakespeare e musica, concentrandosi sul melodramma romantico e sulle transcodifiche di linguaggi diversi. Ha voluto raccontare agli studenti la parabola di Amleto nell’opera in musica, presentando una lunga carrellata di librettisti e musicisti che ne hanno realizzato rifacimenti, a partire dall’Amleto di Apostolo Zeno nel 1706: una articolata rete di adattamenti che hanno tentato una rilettura, fino ad arrivare all’Hamlet di Ambroise Thomas del 1868 che segna il passaggio definitivo.

Ma quando si parla di Amleto non si parla solo di opera e musica, bensì di un testo così ricco e straordinario da poter essere interpretato nei modi più vari, come hanno spiegato Andrée Ruth Shammah e Roberto Herlitzka nella seconda parte del pomeriggio dedicato alla grande tragedia shakespeariana.

«Nel 1973 abbiamo aperto il teatro con Amleto», ha esordito la direttrice del Franco Parenti. «Giovanni Testori ne era ossessionato» e ciò spiega la scelta di scrivere quello spettacolo che segnò l’inizio della storia del teatro e che ancora oggi, a distanza di quarant’anni dalla fondazione, occupa un posto di primo piano poiché è il testo che per eccellenza «svela la verità». «Abbiamo chiesto alle compagnie teatrali di esprimere con un frammento l’Amleto», ha riferito Andrée Ruth Shammah spiegando in che cosa consiste il Progetto Amleto, incentrato sui rifacimenti e le riscritture del dramma: «hanno accettato tutti». In questo ambito si inserisce dunque ExAmleto, lo spettacolo che vede la regia e l’interpretazione di Roberto Herlitzka. L’attore racconta la genesi del suo Amleto: per recitare al Teatro della Villa di Roma quindici anni fa «ho estrapolato solo le battute di Amleto e da allora ho continuato a farlo». «Ho constatato che Amleto è un monologo. Sono stato fortunato ad avere ridotto a monologo un testo che lo è già», spiega. E la sua trasformazione del testo in monologo ben si adatta al carattere del protagonista: «Amleto è il centro del mondo. Tutto quello che gli succede passa attraverso la sua mente. Io sostengo che non è un personaggio teatrale, è una persona».

Svela poi le norme da cui non si può prescindere per realizzare un buon adattamento: «il criterio base è quello di rispettare totalmente il testo. Anche la traduzione deve essere fedele». Racconta di aver impiegato per il suo spettacolo il primo testo di Amleto che ha letto, la storica traduzione di Alessandro De Stefani, a suo parere «la più elegante, la più giusta, la più facile da dire». E nel dare consigli ai drammaturghi di oggi rivela la sua concezione di teatro: «il teatro che io voglio fare ha di per sé un valore poetico. Se un testo è scritto soltanto per raccontare una storia a me non interessa rifarlo. Perché il testo deve rappresentare anche la vita, attraverso il linguaggio e le parole. Naturalmente quando dico parole intendo anche i silenzi». E il suo pubblico più fedele? «È quello di giovani aspiranti attori e studenti».