Ettore Bernabei e Lorenzo Ornaghi al collegio Nuovo JoanneumSono nati tutti e due in via della Pergola, a Firenze, Ettore Bernabei e Sergio Lepri. Uno nel 1921 e l’altro nel 1919. Dopo aver vissuto appassionatamente tutte le vicende del Ventesimo secolo da uomini pienamente attivi nel contesto politico nazionale, oggi, entrambi ultranovantenni, hanno scelto di dar voce alle loro testimonianze pubblicando il libro Permesso, scusi, grazie. Dialogo tra un cattolico fervente e un laico impenitente: un racconto intenso, che ripercorre tutti i principali avvenimenti del Novecento all’insegna dell’arricchimento culturale che può nascere dal confronto tra una visione della vita ferventemente cattolica, quella di Bernabei, e una impenitentemente laica, quella di Lepri.

Di questo libro l’Università Cattolica ha ospitato a Roma una presentazione dedicata in primo luogo ai ragazzi del Collegio Nuovo Joanneum e degli altri Collegi: mercoledì 26 febbraio 2015 la sala “Giovanni XXIII” si è così fatta luogo di storia attraverso il racconto di uno dei due autori del libro, Ettore Bernabei, introdotto dall’ex rettore dell’Ateneo Lorenzo Ornaghi.

«Avete la fortuna e l’onore di incontrare qui Ettore Bernabei - ha spiegato Ornaghi, introducendo l’incontro -. È stato un protagonista della storia italiana e, fra l’altro, ha ricoperto il ruolo di Direttore Generale della Rai dal 1961 al 1974. Ancora oggi, tra i ranghi della televisione italiana, lo rimpiangono per la spiccata professionalità e la capacità di prendere decisioni. Il libro – ha poi concluso l’ex ministro dei Beni e delle Attività culturali - è strutturato per decenni, ed è estremamente utile per chi è interessato alla storia italiana del dopoguerra».

«Il nostro è il libro di due amici, che la pensano diversamente, ma si rispettano ognuno per le sue idee – chiarisce subito Bernabei -. Con Sergio ci siamo conosciuti nel 1945, lavorando in un quotidiano fiorentino, negli anni di resistenza al fascismo. Io fui congedato proprio nel ’45 ed entrai in quel giornale in rappresentanza della Democrazia Cristiana. Abbiamo lavorato insieme a “Il Popolo” di Roma. Dopo abbiamo iniziato a lavorare per il professor Fanfani, lui come portavoce e io come collaboratore. Ho avuto la fortuna di stare vicino a uomini come De Gasperi, Moro… Uomini di grande cultura. Lo dico ai giovani: insistete nello studiare, soprattutto i medici. Lo studio della medicina fa bene non solo al corpo, perché non c’è contraddizione tra scienza e fede: lo studio del corpo, di questa meravigliosa invenzione, porta necessariamente alla fede. Un importante ricercatore americano, scopritore della mappatura del genoma umano, diceva di essersi convertito dopo aver conosciuto la meraviglia del corpo umano: si rese conto che solo un primo motore, per citare Aristotele, poteva averlo realizzato. I cattolici oggi sono entrati in letargo e stanno un po’ in silenzio; invece devono farsi rispettare. Il professor Giorgio La Pira, mio grande maestro, che donava il suo stipendio ai conventi delle suore di clausura, diceva pure che il ‘mondo è di chi se lo piglia».

Poi, sollecitato da uno studente, Bernabei prova spiegare la sua visione di servizio pubblico: «Oggi più che mai c’è bisogno di un servizio pubblico televisivo. Ora per sapere quando è nato e morto Giulio Cesare basta pigiare un bottone, ma la televisione è sempre didattica, non ci illudiamo. Ha insegnato a tutti gli italiani a parlare una sola lingua. Ha svolto un compito di affrancamento della mente democratica del popolo italiano. E la televisione ha un obbligo primario: quello di difendere gli interessi del Paese che parla quella lingua. Per il momento solo un Paese ha organizzato la televisione pubblica in questo senso: la Gran Bretagna con la BBC. La televisione italiana non deve permettere, pur nel rispetto altrui, che gli interessi di altri prevalgano sui nostri».

Proseguendo il suo viaggio negli archivi della memoria, Bernabei racconta il rapporto speciale instaurato con tre grandi personaggi della prima repubblica e soprattutto un pezzo di storia italiana: «Tre professori universitari: La Pira, Fanfani e Moro. Ho avuto grandi insegnamenti da queste persone dai temperamenti molto diversi. La Pira era un uomo di Dio con spirito profetico, era come se intuisse il futuro. La Pira e Fanfani credevano che la loro testimonianza cristiana dovesse essere svolta nell’ambito dell’insegnamento universitario, ma con il tempo si convinsero di impegnarsi in politica. Fanfani era un pragmatico, un realizzatore. Moro sembrava invece più un teorico, magari lento nel prendere le sue decisioni; non era così. Fanfani e Moro avevano poi una dotazione intellettuale superiore alla media. Si stimavano molto, avevano gli stessi fini, cioè l’interesse della gente comune, dei più deboli, rispettando anche i forti, ma stando attenti che non prevalessero sui deboli. Nei primi mesi del 1962, l’Italia diventò il quarto Paese più ricco del mondo. Nessuno dei giornali italiani parlò di ‘miracolo italiano’: non era un miracolo, era il risultato del lavoro di tutti».

Non poteva mancare, in chiusura di serata, un accenno all’affaire Moro, e a quella trattativa sfumata proprio nel momento in cui stava per diventare possibile. «Fu un errore imposto dai comunisti ai democristiani quello di non trattare per la vita di un uomo – chiarisce subito Bernabei-. Le Brigate Rosse erano un prodotto straniero, che si impegnò a spolpare l’Italia. Fanfani e Craxi si incontrarono in casa mia più volte per vedere se potevano trovare una via per salvare la vita a Moro con la loro amicizie: Craxi ci provò con alcuni gruppi come ‘Potere operaio’ e ‘Lotta continua’. Fanfani lo fece attraverso il cardinal Benelli, arcivescovo di Firenze, e con il prefetto di Firenze. Fu ottenuta la promessa di garantire la vita a Moro se il Capo dello Stato avesse concesso la grazia a una brigatista (non omicida) condannata a 8 anni di carcere. Fanfani aveva ottenuto quella promessa proprio a inizio maggio e stava per annunciarla la mattina del 9 nella sede del partito, ma poco prima comunicarono che era appena stato trovato il cadavere dello statista. Avevano ragione Fanfani e Craxi: bisognava trattare per salvargli la vita».