«La ricchezza di un Paese dipende dalla conoscenza e dall’innovazione, dunque, dalla ricerca». Parola di Salvatore Aloj, ordinario di Biologia e prorettore dell’Università di Napoli Federico II per le Relazioni internazionali, un passato tra le maggiori istituzioni scientifiche internazionali, dalla londinese Medical Research Council (Mrc) alla statunitense National Institutes of Health (Nih). Aloj è stato protagonista della lezione di apertura dell’edizione 2010 dei Seminari Biologici della Cattolica, promossi dall’Istituto di Patologia generale della Cattolica di Roma, diretto dal professor Tommaso Galeotti, e dal Centro ricerche oncologiche “Giovanni XIII” dell’ateneo, diretto dal professor Achille Cittadini, sul tema "Diventare ricercatore: Come? Perché? Con quali prospettive?".

Ad ascoltare Aloj lo scorso 27 gennaio, nella gremitissima Aula Brasca del Policlinico Gemelli, un pubblico attento e motivato di studenti e giovani ricercatori della Facoltà di Medicina della Cattolica. «Questo incontro inaugurale dei Seminari biologici – ha detto, introducendo la conferenza, Francesco Ria, docente di Patologia generale alla Cattolica di Roma e coordinatore scientifico dei Seminari – vuole fare il punto sullo stato della ricerca in Italia e all’estero ed essere al tempo stesso una proiezione del futuro per i giovani, che vogliono intraprendere la difficile strada del ricercatore, soprattutto in un Paese come il nostro».

«Le potenzialità di crescita e le prospettive di carriera dei ricercatori italiani sono modeste e le loro retribuzioni al di sotto della media europea», ha introdotto la giornalista scientifica Letizia Gabaglio, moderatrice dell’incontro. «Il problema centrale è proprio lo “status” di ricercatore, cui non è riconosciuto il ruolo che merita per lo sviluppo del Paese. Ciò incide sfavorevolmente sulle scelte dei giovani laureati, che spesso rinunciano al sogno di fare ricerca, propendendo realisticamente per professioni più remunerative».

Ma come si diventa ricercatori? E quali sono le prospettive di carriera? «Natura inquisitiva e curiosità di conoscere il perché e il come delle cose sono prerequisiti caratterizzanti un ricercatore, ma non basta», ha detto Aloj. «Elemento importante è l’impegno personale. È fondamentale che chi decide di fare il ricercatore trovi gratificazione nel proprio lavoro e sia convinto dell’importanza dell’obiettivo perseguito. E avere fortissime motivazioni».

Aloj ha poi confrontato i sistemi di formazione e reclutamento dei Paesi di cultura anglosassone con il nostro sistema-paese. «In Italia la ricerca é, in grande prevalenza, appannaggio delle università o degli Enti pubblici di ricerca (Epr). Le norme di accesso, sia al percorso formativo (i dottorati di ricerca) sia al proseguimento della carriera, tanto nell’università, quanto negli Epr, sono regolate da concorsi. Purtroppo il concorso pubblico per il reclutamento dei ricercatori, così come viene gestito in Italia, offre troppo spazio ai personalismi delle scelta. Non credo si possa ritenere efficiente - ha spiegato Aloj - un sistema che delega la scelta dei vincitori a commissioni fatte da persone che, per quanto competenti ed oneste, non sono tenute a dar conto, se non sul piano formale o giuridico, del proprio operato. Nella maggior parte dei casi, il sistema concorsuale italiano delega la scelta a soggetti, che non risponderanno alle ‘conseguenze’ della scelta, nel bene come nel male».

Negli Stati Uniti d’America e nel Regno Unito, le cui università occupano i primi dieci posti (rispettivamente 8+2) nelle classifiche delle migliori istituzioni accademiche al mondo, l’accesso al percorso formativo del ricercatore è fortemente selettivo; la differenza sostanziale con ‘metodo italiano’ è che la scelta dei ricercatori viene fatta da chi è direttamente coinvolto nei progetti di ricerca, il cui successo è quindi fortemente condizionato dall’intelligenza, dall’immaginazione e dall’attitudine al lavoro di chi vi partecipa.

«Le prospettive di carriera, inoltre, sono fortemente penalizzate. In Italia sono modeste, tanto nelle università quanto negli Epr. Almeno fino a ora, il conseguimento del ruolo di ricercatore corrisponde a un posto permanente di dipendente pubblico. Nel mondo anglosassone l’aspettativa di un posto fisso è piuttosto remota e ogni posizione soggetta a periodiche verifiche. È evidente come questo sistema assicuri maggiore flessibilità e possibilità di ricambio a vantaggio dei ricercatori di maggior valore», ha aggiunto Aloj. In Italia il numero dei ricercatori è tra i più bassi dei Paesi occidentali. In Finlandia su ogni 1000 lavoratori 13,77 sono ricercatori; in Svezia i ricercatori sono 10 su 1000 e in Germania sono 8 su 1000; in Italia i ricercatori sono circa 3 ogni 1000 lavoratori. «È un “primato” che non può certo rallegrare. Ciò non meraviglia tenendo conto che l’Italia investe poco in ricerca e sviluppo. Tuttavia, la produttività (le pubblicazioni) di ciascun ricercatore è tra le più alte del mondo (solo i ricercatori di USA e UK fanno meglio di noi) e la qualità della produzione scientifica italiana è tra le più alte».

Una realtà difficile quella descritta da Aloj, ma che non deve scoraggiare i giovani che aspirano a fare ricerca in Italia. «L’università italiana è in grado di ‘produrre’ ricercatori di alto livello, alcuni dei quali, però, non riescono a intravedere prospettive di carriera accettabili nel proprio Paese. Non sembri scontato affermare – ha concluso Aloj - che se riusciremo ad avere più ricercatori, mantenendo alti gli standard di produttività e di qualità scientifica, l’Italia diventerà un Paese migliore».