Le tre ragazze afghane con il loro accompagnatore intervistate nella sede del master in Giornalismo dell'ateneoSono qui grazie al progetto Through your eyes, che vede coinvolti l'Università Cattolica, l'Afghanistan Journalist Center di Herat, l'agenzia fotogiornalistica Parallelo Zero e la provincia di Trento. Loro sono tre, giovani e curiose, ma soprattutto preparate e determinate. Si chiamano Sosan, Shahin e Shahnaz, vengono dall'Afghanistan e il loro sogno è diventare giornaliste. Alcune di loro, neo-laureate alla facoltà di giornalismo di Herat, hanno già alle spalle importanti esperienze lavorative: Sosan lavora soprattutto in radio, dove conduce un programma sui diritti delle donne. Shahin è una reporter freelance che collabora con varie testate della capitale e accompagna i colleghi stranieri che vengono a fare reportage a Kabul. Shahnaz conseguirà la laurea a breve. Le accompagna Wahab, giornalista ventiseienne, padre di due bambini, che conduce un programma di dibattiti politici in tv. Dal 6 all'11 maggio i quattro si sono divisi tra il lavoro a Parallelo Zero e l'esperienza al master in Giornalismo dell'ateneo di largo Gemelli. Poi, per tre settimane, lavoreranno presso testate trentine.

Il progetto è nato nel 2009, in stretta collaborazione con l'esercito e, con otto missioni e venti docenti, è riuscito a formare duecento giornalisti, il trenta per cento dei quali donne. «L'obiettivo era soprattutto di formare giornaliste donne, dando loro le competenze professionali per interfacciarsi con i media occidentali», spiega Marco Lombardi, coordinatore del progetto, docente di Sociologia e direttore del master in Giornalismo. «Abbiamo fornito loro gli strumenti operativi per lavorare sul campo, cercando di formare delle professionalità in maniera sostenibile. Una volta in Italia e a contatto con i nostri media, vogliamo aprir loro le porte come possibili corrispondenti: i media italiani, ad esempio la Rai, con cui abbiamo collaborato l'anno scorso, sono interessati per primi ad avere dei corrispondenti in Afghanistan senza la necessità, ogni volta, di mandare una troupe».

«Uno dei criteri con cui abbiamo scelto le ragazze - aggiunge Ada Francesca Rizzoli, fotogiornalista indipendente, antropologa e ideatrice del progetto - è stato quello di preferire ragazze che volessero rimanere a lavorare sul loro territorio, piuttosto che altre che, invece, sognavano di andare a lavorare fuori dai confini afgani. Non possiamo avere la presunzione di andare in Afghanistan e risolvere i loro problemi ma possiamo costruire un rapporto dialogico, capire con loro le necessità e, soprattutto, a livello comunicativo, chiederci come possiamo arrivare alle donne che subiscono violenza, far comprendere i loro diritti e, attraverso i media, aiutarle a modificare le loro condizioni sociali».

La sfida più affascinante è di raccontare l'Afghanistan attraverso gli occhi di chi ci vive e, quindi, riuscire a decostruire quell'immagine promossa dai media, quello sguardo occidentale, che considera l'Afghanistan solo come Paese in guerra, in cui tutte le donne sarebbero sottomesse e analfabete e tutti gli uomini fondamentalisti e violenti. «È vero che abbiamo molti problemi nel nostro Paese - spiega Sosan - è vero che le donne spesso subiscono violenza e devono indossare il burka, ma questa non è l'unica realtà: molte, specialmente quelle della nuova generazione, hanno studiato e sono completamente diverse dalle loro nonne». «In Afghanistan stiamo facendo molti passi avanti», dice Wahab. «Ogni anno più di 10mila persone si laureano, centinaia di migliaia persone si diplomano nelle scuole, migliaia di persone prendono una specializzazione post lauream. Ma non vedo né sento mai tutto ciò nei media, neanche su Al Jazeera».

L'Afghanistan raccontato da questi quattro giornalisti nei loro reportage è, in effetti, un Paese inedito, per noi: si parla della vita degli anziani in città, della lotta delle donne contro i soprusi, della quotidianità nei campi profughi al confine, del consumo di droga e delle difficoltà dei disabili. «È immediatamente uno sguardo diverso - precisa il professor Lombardi - perché gli interessi di questi giornalisti sono diversi da quelli di un collega occidentale che arriva sul posto, sta qualche giorno e confeziona un pezzo su una realtà a cui è estraneo. Questi ragazzi vogliono raccontare un Afghanistan vissuto quotidianamente, e non eccezionalmente, come un Paese in guerra».

Sembra che questi giovani professionisti non abbiano paura né di affrontare le minacce né di dover combattere: «So che fare la giornalista mi porrà di fronte a molti problemi - ammette Shahnaz - ma non mi importa, perché voglio capire ciò che mi succede attorno e aiutare le donne della mia terra». Shahin è più cauta: «Possiamo fare molto, ma abbiamo bisogno di tempo: il nostro ruolo è fondamentale per il nostro Paese: la gente ha bisogno che la stampa parli dei loro diritti, dei problemi politici, di ciò che succede dentro e fuori l'Afghanistan. Non sempre e solo di guerra: ne abbiamo abbastanza».