Dal Re alla Repubblica, la storia d’Italia passa dalle istituzioni. È il tema del convegno 150 anni di Unità d’Italia: aspetti istituzionali, ospitato nell’aula Pio XI della sede milanese dell’Università Cattolica. L’appuntamento, organizzato dalla facoltà di Scienze politiche, con il patrocinio del Consiglio internazionale delle ricerche, in collaborazione con l’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), ha analizzato le evoluzioni della politica italiana, nei suoi aspetti sia interni che internazionali.

La prima sessione della giornata di studi ha posto l’accento sul ruolo della monarchia nella costruzione dello Stato italiano. «Un filo rosso – avverte Francesco Perfetti, docente di Storia contemporanea alla Luiss di Roma – unisce i Savoia all’Italia: il Risorgimento fu possibile grazie a una convergenza tra lo Stato Sabaudo e il Paese». A cominciare dalla figura di Vittorio Emanuele II: «Il re, da un lato, seppe legittimare la rivoluzione italiana davanti all’Europa; dall’altro, superò il municipalismo, realizzando l’unificazione spirituale e politica dell’Italia».

Il binomio re-popolo dovette presto fare i conti con un terzo incomodo, il fascismo. «Vittorio Emanuele III – continua Perfetti – non fu un sovrano di facciata, ma scese a patti con Mussolini per realismo politico». Un rapporto di compromesso in cui non mancarono momenti di conflittualità. «Il re non accettò supinamente il fascismo. Provò anzi a smarcarsi dal regime, rifiutando di inserire il fascio littorio nel tricolore. Allo stesso tempo il fascismo, ab origine repubblicano, tentò per tutto il Ventennio di logorare l’istituto monarchico». Come confermano alcuni episodi: l’autoconferimento, da parte di Mussolini, del titolo di primo maresciallo dell’Impero, carica fino ad allora attribuita solo al re, e la fascistizzazione del Gran Consiglio. «Per questo – chiude Perfetti – non è sbagliato parlare di una “diarchia imperfetta”, in cui re e duce si ostacolavano a vicenda, avendo tuttavia bisogno l’uno dell’altro». Un approccio del genere, lontano dal revisionismo e dall’apologia, riabilita la monarchia savoiarda a specchio della nazione, attorno a cui coagulare un patriottismo dei sentimenti. Anche se, come avverte Paolo Colombo, ordinario di Storia delle istituzioni politiche in Cattolica, «sarebbe preferibile un patriottismo ancipite, che metta assieme simbolo e testo, emozione e Costituzione».

La struttura e l’anima del nostro Paese si possono leggere anche da un’altra prospettiva, quella delle relazioni internazionali. Massimo de Leonardis, direttore del dipartimento di Scienze Politiche di largo Gemelli, spiega l’atteggiamento altalenante dell’Italia nel suo secolo e mezzo di storia. «Si possono distinguere – dice – due grandi linee: la politica di potenza e la politica dell’ago della bilancia. La prima ha caratterizzato l’età crispiana e quella fascista; la seconda il periodo cavouriano e quello repubblicano». L’armistizio del 1943 è stato, però, la vera cesura: «Quella data segna la fine dell’Italia come grande potenza e l’inizio dell’Italia come grande nazione». Pacifismo e solidarismo diventano le parole chiave, pur con le dovute eccezioni. «L’Italia repubblicana – ammette de Leonardis – ripudia la guerra. Ma si arma di realpolitik: le guerre giuste sono quelle vinte, le guerre sbagliate quelle perse».

Resta il dubbio se l’8 settembre sia stato davvero “la morte della patria”. «In realtà – sostiene de Leonardis – il nazionalismo postbellico assume altre vesti: diventa terzomondismo, atlantismo o europeismo». Eleggendo l’ambiguità a linea programmatica: «L’Italia assume una doppia strategia internazionale: ostenta impotenza per avere concessioni, scende a compromessi con il nemico pur restando fedele agli alleati».

Una riflessione che potrebbe confermare la famosa battuta di Bismarck: "L’Italia non è uno Stato serio: è piena di musicisti e di traditori". Ma l’approccio di Giovanni Battista Varnier, preside della facoltà di Scienze politiche di Genova, potrebbe riabilitarci come Paese e come popolo: «Nel rileggere la storia patria – dice – occorre andare oltre il mito, senza alimentare nuovi miti».