Per un guaio all’impianto elettrico di casa si fa ricorso a un tecnico. Per un malanno fastidioso si chiede l’intervento di un medico. Si tratta – così si auspica – di eventi limitati: non sempre si è ammalati e non sempre gli impianti si guastano. Invece la condizione di cittadino permane: si è sempre destinatari di leggi, decreti, ordinanze, eccetera. A questa condizione ci si può sottrarre dandosi alla macchia o fuggendo ai Tropici. Ma è impresa costosa e la crisi morde i redditi. Minore è il dispendio se ci si adatta a vivere in una trama di rapporti retta da un detto tremendo: ignoratio iuris non excusat. Questo requisito pone la lingua dei testi normativi in una posizione diversa dalla lingua degli elettricisti o dei medici.
Comune è un lamento a tutti gli esseri umani che si possano lamentare del potere (condizione privilegiata: altri non osano lamentarsi neppure una volta; sanno infatti che non ve ne sarebbe una seconda): le leggi, i decreti, le ordinanze, eccetera risultano incomprensibili; si pensa che siano scritte male apposta per scoraggiarne la lettura al popolo sovrano. È diffusa l’impressione che tanta oscurità diffonda paura e sfiducia verso il potere costituito, ma serva pure ad alimentare schiere di liberi professionisti, chiamati a decifrare dietro compenso le righe inaccessibili ai profani.
Nella vita della nostra Repubblica, i moniti dei giuristi sono costanti. Fin da Calamandrei si esorta a praticare la chiarezza. E gli studiosi di linguistica italiana hanno contribuito con un’ampia manualistica di alto livello e di agevole applicazione. Da decenni è attivo un movimento che mira a liberare il linguaggio burocratico-amministrativo da un ripiegamento esoterico, che produce testi per iniziati. Varie campagne di battaglia contro le tenebre linguistiche hanno inciso in settori cruciali, come, per esempio, la comunicazione con i contribuenti. Anche le bollette dei consumi di energia sono più chiare – e care – di un tempo. Se tuttavia ci addentriamo nella foresta del catasto, il disagio linguistico aumenta proporzionalmente all’imposta dovuta. Ancor più intenso malessere prova chi legga il contratto di conto corrente stipulato con la banca matrigna. Non è soltanto l’ente pubblico a comunicare in modo oscuro. Dicono, tuttavia, che il cattivo esempio venga dall’alto: da leggi mal fatte e scritte male.
Nel 2007 si è stabilito che in Italia vigono oltre 21mila leggi statali e oltre 25mila leggi regionali; vi si aggiungono le norme degli enti locali. Marcello Clarich e Bernardo Mattarella osservano che le leggi e i regolamenti sono troppi e sono emanati e modifi cati troppo frequentemente. Inoltre, «sono poco coordinati tra loro, mal scritti, poco conoscibili, interpretati in modo incerto e incostante». Molti fattori concorrono a una tale situazione: «[...] la credenza diffusa che i problemi si risolvano attraverso la modifica delle norme, piuttosto che con azioni concrete in sede applicativa; la molteplicità di livelli di produzione normativa (Unione europea, Stato, regioni, enti locali ecc.) e di tipi di fonte (leggi, regolamenti, decreti attuativi, circolari ecc.); l’eccessiva discrezionalità dell’amministrazione in sede di interpretazione e applicazione delle norme [...]» (ibidem). E ancora: «Vi è una “grammatica” per scrivere le leggi e ci sono manuali di tecnica legislativa [...]. Ma la fretta è nemica della qualità: le leggi vengono redatte troppo rapidamente [...]», per ragioni non sempre nobili.
Tali distorsioni sistemiche non bastano per spiegare la bassa qualità linguistica, così spesso lamentata. Come i nostri autori, molti altri rilevano che la produzione normativa è elevata, gli autori sono troppi, non comunicano fra loro e il tempo per scrivere è scarso. Del resto, è ben noto che testi brevi e chiari non si elaborano in quattro e quattr’otto: «Je n’ai fait celle-ci plus longue parce que je n’ai pas eu le loisir de la faire plus courte» (Blaise Pascal, Lettres Provinciales 1656-1657, 16).
Sia qui consentito aggiungere alcuni rilievi.
Per redigere testi così impegnativi non bastano le “grammatiche” o i manuali di scrittura. Forse vi è bisogno di maggiore confidenza con l’italiano – tanto bistrattato, quanto più forti e decisi suonano gli appelli all’unità della Nazione. Negli studi giuridici e politologici non sempre (alcuni dicono: quasi mai) si promuovono le conoscenze della lingua nostra; a dire il vero, questo sembra valere, a volte (sic), anche per gli studi umanistici. Inoltre, chi è preso dagli obblighi della professione deve ridurre il tempo a disposizione per acquisire sicurezza nei “fondamentali” e per fare “esercizi di stile”, al fine di sviluppare una personale linea argomentativa.
Peraltro, molti giudici scrivono sentenze di somma chiarezza e pulizia stilistica. Né mancano responsabili ai vertici della burocrazia, i quali curano, limano, rendono eleganti i propri documenti. Ma parliamo dei vertici della struttura. La base dei burocrati si dibatte come meglio può, combatte contro la mole cartacea in crescita costante, non riesce a leggere tutte le paperasses (le paperazze di Carlo Emilio Gadda) che calano dall’alto e, per di più, è tenuta a produrne di proprie. Per adeguarsi a una prassi antica, uffici dalle scrivanie disadorne risuonano di formule auliche, di espressioni desuete, di latinismi d’accatto, con ragnatele di sintassi contorte, con ridondanze che appesantiscono e affaticano la pagina. La formulazione torbida nasconde la norma limpida e invita a esprimersi l’Azzeccagarbugli che è in ciascun italiano.
Anche per questo richiamo della foresta dell’arzigogolo, il linguaggio del diritto – in mano a chi non sia giurista – è diventato piuttosto un linguaggio burocratico del diritto. A redigere testi sono tecnici abituati a comunicare con altri tecnici, reclutati non di rado tra i ranghi dell’amministrazione pubblica. Costoro recitano a memoria ogni regolamento e non avvertono il bisogno di chiarezza perché basta un numero, una sigla, un codicillo per richiamare alla memoria ogni documento che, anche lontanamente, sia connesso alla pagina in corso d’opera. L’abitudine a comunicare in tal modo dentro a una cerchia di esperti ha fatto sì che il linguaggio impiegato abbia preso le caratteristiche di un gergo, cioè di un codice tipico di una comunità tendenzialmente chiusa.
Per questa via, molti documenti non sono redatti con il nitore di un linguaggio specialistico: ogni branca del diritto, com’è noto, ha un proprio lessico specifico, che denota proprietà, relazioni, situazioni tipiche di quel dato settore. Conoscere il settore significa comprendere la dimensione specialistica del linguaggio che vi è usato. Il gergo burocratico-amministrativo rientra in un’altra tipologia di varietà della lingua d’uso: è quasi una lingua segreta, fatta di espressioni oscure per chi non faccia parte del gruppo. L’uso di tale gergo è fatto per rafforzare la in-groupness: vi sono la coesione verso l’interno (solidarietà fra i membri del gruppo) e l’esclusione nei confronti dell’esterno (chi è fuori non fa parte del “noi” costitutivo del gruppo).
Alcuni propongono di istituire una scuola di scrittura burocratico amministrativa, che aiuti il burocrate a “interagire” con il pubblico. Altri propone di affidare la redazione dei testi normativi a esperti, di limitare la produzione dei documenti e di uniformare o “aggiustare” quelli esistenti. Trop vaste programme, direbbe il generale De Gaulle: leggi, decreti, ordinanze sono ben scritti quando il potere vuole farsi comprendere dal cittadino e quando i cittadini sanno farsi valere. È lecito sospettare che agli italiani torni comoda l’oscurità, per sminuire le proprie responsabilità verso la cosa pubblica.
Va bene esigere un linguaggio meno “lunare” e più “terrestre”. Tuttavia, chi voglia partecipare alla vita di una democrazia è tenuto a conoscere i documenti che lo riguardano, anche se sono scritti male. Un cittadino non può permettersi il lusso di ignorare i testi normativi che lo toccano. Molti di questi documenti si costruiscono secondo uno schema, che rappresenta l’aspetto comune a una classe di esemplari. Impararlo non è difficile; ed è persino utile. Lo schema serve quando si compone un testo e anche quando lo si legge: è una guida per comprendere il senso delle espressioni. Per esempio, una sentenza si compone di un’epigrafe (intestazione e rubricazione), che individua l’atto; vi sono poi una motivazione (con cui il giudice spiega) e un dispositivo (con cui il giudice agisce). Nella motivazione si trovano verbi che descrivono la realtà. Nel dispositivo, si trovano verbi che “fanno” la realtà (“ordina”, “condanna”...). La motivazione pone la premessa per la conclusione del dispositivo. Ogni parte del testo è congrua con un certo tipo di contenuti (per esempio, non si collocano motivazioni nel dispositivo) e di espressioni: nell’intestazione si trovano formule come «in nome del popolo italiano»; il dispositivo è introdotto da un «p.q.m.» o «per questi motivi», e così via. Per chi abbia consuetudine con questi documenti, le formule citate funzionano come segnali della costruzione del testo. Del pari, la giustificazione normativa contenuta nel preambolo di un decreto è indicata anche visivamente da paragrafi introdotti dall’espressione «visto». Conoscere la struttura del testo aiuta a cogliere le parti e a stabilire una gerarchia di interesse per il lettore. Chi abbia bisogno di conoscere la disposizione (magari per sapere quale sia la condanna…) porrà minore attenzione al preambolo. Elementi di questo genere si possono insegnare e apprendere senza sforzo, tanto più oggi, in un’epoca di scolarità diffusa.
I testi normativi, così densi e complessi, non sempre si lasciano semplificare, senza che risultino svuotati di contenuto. Il lamento per l’incomprensibilità di un decreto è condivisibile, ma questo non vuol dire che i testi normativi debbano venir impoveriti. Vale per leggi e decreti quanto si ripete per molti testi letterari (non per tutti): la forma è sostanza e senza una data forma cambia la sostanza. Ogni elemento è costitutivo del senso globale di un atto normativo. Non tutto si può semplificare. Molto, tuttavia, si può imparare, sì da riuscire a comprendere testi difficili.
Per rendere più accessibile la lingua dei testi normativi si deve muovere il mittente, ma si muova anche il destinatario. A ben vedere, una buona soluzione prevede un’azione congiunta e un incontro a metà strada nel cammino difficile della comunicazione pubblica: i cittadini siano vicini ai propri governanti, anche per controllarli; governanti e legislatori escano dal tempio e comunichino con i profani. È un’opera impegnativa, ma in democrazia nessun pasto è gratis.
* Giovanni Gobber è professore ordinario della Facoltà di Scienze linguistiche e Letterature straniere dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove insegna Linguistica tedesca e Linguistica generale. Si occupa di sintassi e pragmatica testuale applicate alle lingue germaniche e slave. Svolge un’intensa attività pubblicistica.