La Tv del Cinema da chi fa Cinema è sbarcata per un giorno all’Università Cattolica di Milano. Grazie al convegno Studio Universal: il cinema in tv, organizzato dal centro di ricerca sulla Televisione e gli audiovisivi  (Certa) diretto da Aldo Grasso, docente di Storia della radio e della televisione, l'aula Pio XI di largo Gemelli è diventata teatro di un incontro dibattito sulle possibilità che le nuove frontiere della televisione offrono al mondo del cinema.

Al centro della discussione la cronaca della vita, della morte e della resurrezione di un brand della televisione italiana, Studio Universal. Il presidente di NBC Universal Global Networks Italia, Luca Federico Cadura, ha ripercorso così la storia del marchio: nato nel 1998 sulla piattaforma Stream per poi passare nel pacchetto cinema di Sky, dopo il recente spegnimento di circa un anno, il canale dedicato al cinema classico americano è rinato sul digitale terrestre di Mediaset Premium.

«Il cadavere si è rialzato come nei migliori film horror», ha ironizzato Cadura a proposito del ritorno sul piccolo schermo di Studio Universal. Aldo Grasso ha evidenziato come «con il satellite e il digitale il marchio sia diventato più riconoscibile», dal momento che la televisione generalista non è più il medium egemone capace di influenzare la vita degli altri media. Ma cos’è un marchio? E da cosa dipende la sua forza immaginifica? Per Milka Pogliani, presidente e direttore creativo di McCann Worldgroup, un vero brand deve «scatenare reazioni forti per stabilire un rapporto di fiducia con il pubblico». Sulla fiducia, infatti, si gioca tutto affinché le persone si approprino del messaggio veicolato dal marchio.

 Qual era il messaggio di Studio Universal, e com’è cambiato oggi a dodici anni dalla sua nascita? Se la televisione va al cinema, il grande cinema va alla televisione, recitava una delle prima campagne di comunicazione del canale tematico. «Si decise di puntare sulla quantità, per evidenziare la trasmissione 24 ore su 24 di film, senza però sottolineare che non si trattava di pellicole in prima visione. Fu un errore - ammette oggi Cadura - solo in un secondo momento si decise di puntare sulla comunicazione della qualità offerta, per far sapere al pubblico che non venivano trasmessi solo film ma anche contenuti speciali, brevi documentari e rassegne per arricchire la programmazione tradizionale. Inoltre, per evitare di trasformarsi nella Cenerentola del pacchetto cinema di Sky, il canale rivendicò il proprio orgoglio nel trasmettere i grandi classici nella convinzione che non esistono film vecchi e nuovi, ma film belli e brutti al di là delle prime visioni delle pellicole più recenti».

«Abbiamo compreso di aver costruito un brand solo quando lo stavano uccidendo», ha aggiunto Cadura, riferendosi ai tanti messaggi degli spettatori dispiaciuti per la sospensione delle trasmissioni. Una dimostrazione del rapporto di fiducia instauratosi fra il pubblico e il marchio, vero e proprio archivio della contemporaneità, come ha osservato il direttore di Rai4 Carlo Freccero, trasformatosi in un insostituibile canone della storia del cinema.