Sono molti i comuni che denunciano quanto il Patto di stabilità danneggi principalmente le realtà virtuose che magari hanno bilanci in attivo, ma non possono impiegarli. E se i comuni non possono spendere, ne consegue che non possano progettare i servizi e le città del futuro, limitando l’economia e ingessando le prospettive.

Per questo “la prima ricaduta negativa del Patto di stabilità è quella sulle imprese” come sostiene Giuseppe Manfredi, docente dell’Università Cattolica e moderatore del convegno “Patto di stabilità e autonomie locali” tenutosi a Piacenza lo scorso 15 aprile e organizzato dal centro di ricerca per il Cambiamento delle Amministrazioni Pubbliche – Cecap.

Dopo il saluto introduttivo della professoressa Anna Maria Fellegara, preside della facoltà di Economia e Giurisprudenza, il professor Manfredi ha introdotto l’argomento. «Negli ultimi anni si è discusso molto degli interventi di riforma del sistema delle autonomie locali, che si sono succeduti a più riprese e che da ultimo sono culminati nell’approvazione del disegno di legge Delrio - ha sottolineato il professore -, ma forse la vera riforma delle autonomie locali è già avvenuta, passando (relativamente) sotto silenzio, e consiste nel patto di stabilità, un vincolo per gli enti locali a rispettare determinati limiti di spesa stabiliti annualmente con legge statale».

Il patto costituisce una forma di attuazione delle politiche comunitarie che a partire dal 1997 hanno imposto limiti ai deficit degli Stati membri dell’Unione europea, e che nel 2012 sono state rafforzate con la stipula del Patto di bilancio europeo - che con un anglismo spesso viene definito Fiscal compact.

«Per il nostro paese l’introduzione di limiti al deficit pubblico non è certo una novità assoluta. Quella dello Stato italiano infatti è anche una storia di debito pubblico, che inizia sin dall’Unità d’Italia, quando il nuovo regno decise di accollarsi tutti i debiti degli stati preunitari, e quindi impiegò i decenni seguenti per cercare di ripianarli, imponendo tributi rimasti tristemente noti, come l’odiata tassa sul macinato - sottolinea Manfredi -. Ma impennate del debito pubblico si ebbero anche in seguito, a causa delle spese sostenute per realizzare la rete ferroviaria nazionale, per partecipare alla prima guerra mondiale».

«I limiti all’indebitamento hanno dunque diverse giustificazioni: ma ciò nonostante è innegabile che la riforma costituzionale del 2012 è stata frettolosa, e, soprattutto, che le regole del patto di stabilità che riguardano Comuni e Province hanno una serie di conseguenze dannose, e a volte addirittura paradossali», prosegue Manfredi.

Molti comuni, per esempio, lamentano che le regole attualmente vigenti, imponendo limiti di spesa rapportati alle uscite degli anni precedenti, finiscono per danneggiare gli enti più virtuosi, i quali a volte si vengono a trovare con bilanci in attivo di milioni e milioni di euro che non possono spendere. Il che, contrariamente a quanto si potrebbe credere, non ha effetti positivi sulla economia del paese: basti pensare che gli enti locali si trovano costretti a ritardare i pagamenti alle imprese che hanno lavorato per loro conto: e ciò rischia di condurre all’insolvenza numerose piccole e medie imprese che non possono permettersi di attendere il pagamento delle proprie fatture per mesi o per anni.

A ciò si aggiunga che il patto di stabilità ha condotto molti enti a ridurre non le spese correnti, che sono difficilmente comprimibili (per esempio, le spese per il personale, che ovviamente non possono essere ridotte da un giorno all’altro), ma le spese per investimenti, che sono uno stimolo e un volano per l’economia privata: si calcola che queste spese nel 2011 sono tornate ai livelli di oltre quindici anni prima, del 1995.

E anche i correttivi che da ultimo sono stati pensati per il patto di stabilità possono avere ricadute negative: per esempio, i patti territoriali, tramite i quali è la Regione a coordinare gli sforzi finanziari dei Comuni, perché secondo alcuni comportano il rischio di comprimere ulteriormente gli spazi di autonomia comunale.

Sforare il Patto di stabilità è d’altra parte, impensabile: «Ci sono sanzioni molte pesanti applicate in automatico - ha spiegato Livia Mercati, docente all’Università di Perugia e assessore al bilancio - a seconda delle cifra per la quale si sfora vengono tagliati i trasferimenti statali, vi è il blocco totale delle assunzioni, il blocco totale degli investimenti e del debito e sanzioni per l’amministrazione».

Anche Guida Iorio, segretario generale del Comune di Fiorenzuola D’arda, ha confermato che, per effetto del Patto, i Comuni hanno visto ridurre drasticamente la loro capacità di intervenire con investimenti a favore dell’economia locale. 

L’unica via d’uscita, per il momento, sembra essere il patto territoriale: «La Regione fin dal 2010 ha introdotto una propria legge con la quale ha potuto favorire scambi orizzontali tra enti locali - ha spiegato Onelio Pignatti, direttore generale risorse finanziarie della Regione Emilia Romagna - è stato un sistema molto utilizzato che ha però visto un irrigidimento nel 2014».

Ma come si è arrivati ad aver bisogno del Patto di stabilità, uno strumento tranciante per gli enti locali? «Il debito pubblico italiano ha raggiunto proporzioni molto più alte di quelle concordate in sede europea - ha spiegato Eugenio Annessi Pessina, docente della Cattolica - il Patto è il modo con cui lo Stato ribalta sugli enti locali gli impegni presi nonostante gran parte del debito sia a livello di Stato centrale».