di Paolo Colombo e Gioachino Lanotte *

La grande guerraNiente come il riverbero prodotto dai canti della Grande Guerra sulla società italiana permette di registrare tutte le oscillazioni di quella che, lungo il secolo che ormai ci separa dall’inizio del conflitto, è sempre stata una memoria “inquieta”. Già l’acceso dibattito politico-sociale che caratterizza la fase preliminare è accompagnato da canti che sostengono le ragioni pro o contro l’intervento. Alle canzoni tracotanti (Guglielmone, Cecco Beppe e Maometto, ad esempio), che insieme ai canti irredentisti (Terra irredenta, Inno di Trento, Trento e Trieste, Inno a Trieste) e al recupero di motivi appartenenti all’innodia risorgimentale (Addio mia bella addio, Inno di Mameli, Inno di Garibaldi) danno vigore al composito coro degli interventisti, fanno da controcanto le canzoni dei pacifisti come Ninna nanna della guerra, scritta da Trilussa nell’ottobre 1914, e i canti anarchici di fi ne secolo (Addio a Lugano, Guerra al regno della guerra, tratta dall’Inno dei lavoratori di Turati, Inno anarchico, Canto dei malfattori, Canto dei lavoratori della terra, Canto dei sofferenti…). In questo contrastato paesaggio sonoro fanno pure capolino le canzoni dei neutralisti (La ragazza neutrale, motivo che meglio di tutti illumina i rapporti politici del governo italiano con gli altri Paesi europei) e le molte filastrocche dei coscritti trentini arruolati sotto la bandiera austriaca (Quel porco de quel medico, Se ben che noi cantiamo, La cartolina, È mort el Gèghero, tanto per citare qualche canzonetta sul tema dell’arruolamento forzato).

I «canti del nostro soldato»
Con l’ingresso in guerra, i canti politicamente schierati lasciano il posto a quelli che il giovane francescano Agostino Gemelli, in servizio al fronte come capitano medico e sacerdote, ha chiamato i «canti del nostro soldato». È lì che si trova il volto per certi aspetti più vero del conflitto. Attraverso l’esame di un altissimo numero di strofette ascoltate in trincea, padre Gemelli si occupa di chiarire il significato e l’importanza del canto per la vita del soldato in un saggio pubblicato per «Vita e Pensiero» già nel 1917 col titolo I canti del nostro soldato. Documenti per la psicologia militare.

Ma anche quei canti, pur se scaturiti da una comune e profonda fonte d’ispirazione e legati da un corale riverbero umano, si sviluppano come un «grande poema popolare contraddittorio e discontinuo nelle sue diverse parti» (A. Virgilio Savona - Michele L. Straniero, Canti della Grande Guerra, Garzanti, Milano 1981, p. 5). Con un’obiettività che negli anni a venire sarebbe stato difficile riscontrare in altri studiosi improntati da impostazioni più ideologicamente marcate, padre Gemelli rileva in quei canti una guerra nascosta, le piccole e grandi sventure di una vita di trincea che – per usare le sue stesse parole – «abbrutisce e annulla ogni sentimento elevato»: il giudizio severo sugli “imboscati” delle retrovie o delle zone di pace; i sacrifi ci della vita di trincea dove, nel fango, si attenua anche lo spirito combattivo; i minuscoli tormenti come quello dei “pidocchi”; le ristrettezze del vitto; il tema dell’“ospedale” come temporaneo riparo dai pericoli della trincea; il rumore del cannone che turba il sonno del soldato. Rimangono invece sullo sfondo alcuni filoni che in quello che Mario Isnenghi ha chiamato il «mondo del dopo» sarebbero diventati i commenti sonori più saldamente legati alle “rappresentazioni” della prima guerra mondiale perché più adatti a dilatare quadri sociali della memoria ideologicamente più definiti e perciò più facilmente rappresentabili: i canti “sovversivi”, i canti degli alpini e le canzoni composte dai professionisti sul tema del conflitto.
Nel caso dei canti sovversivi, ad esempio, padre Gemelli sembra letteralmente “non credere alle sue orecchie” quando, a proposito di alcune strofette che vanno al di là del semplice motteggio, scrive nel suo saggio: «Noi tutti udimmo poco tempo fa diffondersi di bocca in bocca nel nostro popolo dei couplets che erano forse stati suggeriti da qualche agente austriaco in servizio di spionaggio». Ma i canti “sovversivi” ci sono, eccome; la loro presenza è attestata dalle numerose sentenze dei Tribunali militari. (Del resto è difficile pensare che strofette quali «Tu piglia nu fetiente / eccoti fatto lu sergente» siano opera dell’intelligence austro-ungarica). Anzi, nella temperie del “biennio rosso” è proprio il recupero di queste strofe a produrre, in molte osterie e nelle sezioni socialiste, una prima tornata di contromemoria di guerra. Persino la seconda importante raccolta Canti di soldati, comparsa nel 1919 a cura di un diarista populisticamente ispirato come il tenente alpino Piero Jahier, annovera canti dal taglio contestatore (Il disertore, La licenza, E Cadorna manda a dire) insieme ad antiche villotte popolari friulane e ad altri canti militari (Il testamento del Maresciallo, versione originale del Testamento del Capitano, Dove sei stato mio bell’alpino ecc.).

L’eterogeneità delle scelte fornisce lo spunto agli studiosi successivi per muovere critiche all’indirizzo di Jahier. A cominciare da Giulio Fara che già nel 1921 biasima la scelta dei canti perché «dai versi talvolta osceni, e dalle melodie sempre volgari esala un tanfo di caserma che ammorba e appesta un miglio lontano» (L’anima musicale d’Italia. La canzone del popolo, Ausonia, Roma 1921, p. 214). Le critiche più aspre, però, arrivano dai compilatori che si muovono in un più marcato contesto nazional-fascista: Cesare Caravaglios, Raffaele Corso, Giuseppe Cocchiara e Giulio Mele fra i più importanti. Caravaglios rivolge critiche anche a padre Gemelli, il quale viene redarguito per aver messo in luce, nel suo Il nostro soldato. Saggi di psicologia militare del 1917, «egoismi, piccole rivalità, gelosie sorde, odii malcelati fra soldati e soldati, per ragioni o cause futili». Le osservazioni di Gemelli sono precise e puntuali, ma Caravaglios, generale dell’esercito ed esteta di stampo dannunziano, ribatte con protervia: «Il nostro cuore di combattente si ribella a queste ingiuste affermazioni. Tutti sanno che il soldato in trincea è generoso e talvolta muore di freddo per coprire il suo compagno ammalato» (I canti delle trincee, contributo al folklore di guerra, Leonardo Da Vinci, Roma 1930, p. 30).

Gli alpini e il suono della guerra
In età fascista inizia a prendere piede anche il mito dei canti degli alpini da cui emana con maggior forza l’elemento epico della guerra. Nate in reparti riuniti secondo un criterio regionale che ne favorisce il senso corale, le canzoni degli alpini sono concentrate sulla “sacralità della montagna” – tema socialmente presentabile nelle diverse Italie politiche che andranno a sovrapporsi a quella liberale – e caratterizzate da una intensità che consente loro di diventare per antonomasia il “suono” della prima guerra mondiale, anche se spesso sbrigativamente associato alle generiche canzoni di montagna. E, nell’intrecciare i due repertori, una parte importantissima è svolta fra le due guerre dal coro della Sat (Società alpinisti tridentini) e dal Cai (Club alpino italiano). Questi cori professionali, come ha scritto Mario Isnenghi, fungono «da cassa di risonanza e da garanti della memoria anche e proprio attingendo e riattivando questo repertorio collettivo precostituito dalla grande esperienza comune». Canti come Ta-pum (che risale all’epoca del traforo del Gottardo e nell’adattamento dei combattenti trasforma il riverbero degli scoppi in miniera nell’eco prodotta nelle valli dal colpo secco del “cecchino” austriaco), Monte Canino, Monte Nero, Bombardano Cortina, Monti Scarpazi (sdegnosa storpiatura dei Carpazi dove sono finiti i giovani trentini arruolati nei reparti austriaci), Monte Cauriol, Monte Pasubio, e poi Bassano, Valsugana, Gorizia disegnano una vera e propria, drammatica “mappa di guerra”.

Durante la seconda guerra mondiale la memoria dei canti degli alpini transiterà all’interno delle canzoni della Resistenza. La montagna, culla del partigiano, è in quella fase di gran lunga preferita alla pianura in quanto è meno rischiosa, facilita al meglio l’informazione e le discussioni e rappresenta (come ha fatto notare Giorgio Bocca in un suo lavoro del 1966 sulla Storia dell’Italia partigiana) un taglio netto rispetto al Paese reale e alla vischiosità dei suoi infiniti problemi irrisolti. Non meraviglia, perciò, il cospicuo ricorso del repertorio resistenziale a canti del ’15-’18, sia come riadattamento alla nuova dimensione militare sia come parodia. Emblematica in questo senso è La leggenda del Piave, che conosce numerose contraffazioni (La leggenda della Neva, La leggenda di Moscatelli ecc.).
Proprio La leggenda del Piave – è abbastanza noto – costituisce peraltro un capitolo a parte. Punta di diamante di un repertorio commerciale molto nutrito (La canzone del Grappa, La campana di San Giusto ecc.), grazie alla creatività di autori professionisti sempre attenti a cogliere ispirazione dai momenti più epici della guerra per trasformarsi in laboriosi organizzatori di consenso, rappresenta per molto tempo il presidio ufficiale della memoria della prima guerra mondiale. Composta da E.A. Mario (pseudonimo del maestro napoletano Ermete Giovanni Gaeta) tra il giugno e il novembre 1918, a forza di essere eseguita a ogni cerimonia (a cominciare dalla tumulazione della salma del Milite Ignoto al Vittoriano il 4 novembre 1921), ne diventa infatti una vera e propria colonna sonora plebiscitaria, non priva (come tutte le colonne sonore) di toni forzati.

Ma è curioso notare che la fortuna nazional-popolare del Piave si estenderà anche al travagliato periodo della “transizione” (1943- 1945) quando la canzone diventerà una sorta di inno nazionale supplente. In quei mesi di delicato passaggio da sudditi a cittadini, infatti, per gli italiani che ripudiano la monarchia (di cui la Marcia Reale è ancora inno ufficiale a tutti gli effetti) e il passato fascista (che aveva imposto Giovinezza nel ruolo di canto nazionale), il recupero di quella canzone assumerà un significato del tutto particolare. Avrà infatti la capacità di ricollegare gli italiani, sia quelli delle terre liberate sia i partigiani dell’Alta Italia, a un momento politico-sociale molto alto nella storia del nostro Paese, quello del passaggio verso la democrazia.

Con gli anni del secondo dopoguerra si eclissano le forzature nazional-fasciste e torna plausibile la visione democratico-liberale. Il mito della Grande Guerra, tuttavia, anche dalla Repubblica continua a essere alimentato attraverso appesantite liturgie e celebrazioni nazionali. Non si arriva ancora a uno sguardo d’insieme sulla complessità del conflitto. Anzi, dal punto di vista della memoria “cantata”, continua a prevalere l’appiattimento su un “quindicidiciotto” tutto alpino. Ma i canti degli alpini, combinati ai più neutri canti di montagna, stemperano la loro destinazione d’uso sociale fi no a diventare forme minime di espressività e appartenenza collettiva durante le gite del turismo patriottico nei luoghi della Grande Guerra e delle comitive nei rifugi alpini, in un recupero affettuoso ma inerte dal punto di vista di costruzione della memoria («Quando saremo fora, fora de la Valsugana…», «Il capitan della compagni-i-iaaaa…»).

Memorie in conflitto
È verso la metà degli anni Cinquanta che inizia a maturare un deciso ribaltamento della memoria di quella guerra. Grande impulso in questa direzione viene dallo sviluppo di una nuova consapevolezza ideologica nel campo della musica popolare, con la formulazione, da parte di Ernesto De Martino, del concetto di “folklore progressivo”. In questa chiave il folklore non è inteso come semplice tradizione, ovvero memoria presente del passato, ma contiene anche motivi progressivi, con accenni e indicazioni verso il futuro. Su queste basi prende vita nel 1957 il progetto dei Cantacronache, un gruppo di artisti e intellettuali (Sergio Liberovici, Fausto Amodei, Michele Straniero, Italo Calvino, Franco Fortini…) che unisce la produzione di una “nuova canzone” alternativa alla canzonetta commerciale con un lavoro di ricerca sul versante della cultura popolare. L’attenzione dei Cantacronache va inizialmente ad appuntarsi sul recupero dei valori della Resistenza ma presto si spinge alla valorizzazione di altri grandi patrimoni canori, compreso, naturalmente, il consistente repertorio della Grande Guerra.

La ricerca “sul campo”, continuata poi – a partire dal 1962 – dal Nuovo Canzoniere Italiano, conduce a operazioni di scavo più profondo nella memoria del ’15-’18. Dalla suggestione poetica e dalla carica eversiva (in senso soprattutto morale, ma anche politico) dei canti popolari, che per le loro caratteristiche rientrano perfettamente nell’orizzonte del folklore progressivo, scaturisce l’interesse per il recupero di quei canti “sovversivi” di cui dicevamo all’inizio e che erano stati rimossi attraverso l’opera di censura messa in atto dallo Stato Maggiore dell’esercito prima e dal regime fascista poi. Il valore documentario di quelle canzoni “contro” consente ai nuovi compilatori di andare oltre una memoria “celebrativa” e di confezionare viceversa un racconto della Grande Guerra più ampio, all’interno del quale compaiono nuovi elementi: inammissibilità psicologica, arroganza politica, prepotenza economica, inconcepibilità storiografica, intollerabilità umana, idiozia culturale, ottusità nazionalista, inadeguatezza diplomatica e persino impreparazione militare.

Ovvio che questa chiave di lettura risulti ostica per larghi strati della classe dominante, finché memoria “celebrativa” e memoria “sovversiva” entrano in rotta di collisione. Accade in occasione dello spettacolo Bella Ciao, la cui prima nazionale ha luogo nel giugno 1964 al VII Festival dei Due Mondi di Spoleto, per iniziativa di Nanni Ricordi. Durante lo spettacolo, Michele Straniero canta nell’esecuzione di O Gorizia tu sei maledetta una strofa non prevista («Traditori signori ufficiali / che la guerra l’avete voluta / scannatori di carne venduta / e rovina della gioventù») che suscita la reazione di un ufficiale e l’ira dei benpensanti presenti in sala. Nelle serate successive lo spettacolo viene costantemente disturbato da gruppetti di destra che cercano di impedire la rappresentazione mentre artisti e curatori vengono denunciati per vilipendio delle forze armate. Dopo quell’episodio le cose cambiano; le letture trionfalistiche di Vittorio Veneto lasciano il posto a una storiografi a dei vinti di Caporetto che trova in O Gorizia tu sei maledetta («O Gorizia tu sei maledetta / per ogni cuore che sente coscienza / dolorosa ci fu la partenza / e il ritorno per molti non fu / O vigliacchi che voi ve ne state / con le mogli sui letti di lana / schernitori di noi carne umana / questa guerra ci insegna a punir») il leit-motiv di una vera e propria inversione dei valori.

Nel contesto socio-politico degli anni Settanta – dove sfociano la protesta civile e la presa di coscienza popolare germogliate durante le mobilitazioni di massa del secondo dopoguerra (1947-1948), la politicizzazione delle energie giovanili di inizio anni Sessanta (fatti di Genova e Reggio Emilia) e le istanze sollevate dal Sessantotto – alcuni temi già presenti nei canti “sovversivi” della prima guerra mondiale vengono riconosciuti come elementi di ascendenza culturale. L’antimilitarismo ravvivato dalla guerra in Vietnam rispolvera le vecchie strofette pacifiste del ’15-’18 (come Addio padre e madre addio o Son tre anni che faccio il soldato), l’emancipazione femminile si rispecchia in diversi canti di spose, fi danzate e madri di soldati mandati in trincea (E anche al mì marito, Regazzine vi prego ascoltare…) e persino la visione marxista della storia ripensata all’interno dei rapporti di classe trova riferimenti (Maledetto sia Cadorna, Maledetta la guerra e i ministri, Quattro signori a Parigi vanno).

Negli anni Settanta questo tipo di approccio transita anche nei materiali dell’intrattenimento culturale. Film come Uomini contro di Francesco Rosi (1970) e canzoni come La ballata del milite ignoto dei Gufi (Valdi e Patruno, 1968) e Al milite ignoto di Claudio Lolli (1975) convergono, infatti, nella rivisitazione in chiave polemica del mito della Grande Guerra.

Alla fine di quel decennio, molto intenso dal punto di vista dell’impegno sociale ma anche appesantito da austerità, disoccupazione, lotte sindacali, surriscaldamenti ideologici e soprattutto deliri terroristici, la società italiana si rivela desiderosa di voltare pagina. Sono i cosiddetti “anni del riflusso” e, dal punto di vista musicale, quelli del rilancio del Festival di Sanremo, quasi scomparso negli anni precedenti, sospinto da un culto dell’immagine che ne facilita il grande ritorno in auge. L’impatto con la tragicità di un evento lontano costato milioni di vittime tra soldati e civili esercita scarso appeal presso una società conquistata dagli stili di vita che si riflettono in una nuova, rampante, televisione commerciale. Ma gli anni Ottanta – anche per l’impulso dato dalle ricerche di Jacques Le Goff – sono soprattutto gli anni di una evoluzione del pensiero storiografi co nella direzione della “storia sociale” e di una riflessione profonda proprio sul tema della memoria. L’immagine della Grande Guerra sembra così scindersi fra quella che con un ossimoro si potrebbe definire una memoria “dimenticata”, da parte della società, e una memoria “ricercata”, da parte degli addetti ai lavori desiderosi di pervenire a un grande racconto collettivo sul primo conflitto del “secolo breve”. Nello specifico dei canti della guerra, ad esempio, nel 1981 esce l’opera in due volumi di Savona e Straniero, a tutt’oggi sicuramente il lavoro più approfondito e documentato su quell’ingente patrimonio.

Da lì a poco, nel 1984, anche Dario Albani Barbieri fornisce un contributo pur se all’interno di un lavoro più ampio sul canto di guerra («Ta pum, ta pum, ta pum…». Canti della grande guerra, della resistenza e della liberazione). Nello stesso anno, l’etnomusicologo Roberto Leydi pubblica una pregevole raccolta di canti popolari italiani nella quale, naturalmente, ampio spazio è dedicato ai canti della prima guerra mondiale (I canti popolari italiani). Ma è solo nel 1989 che, grazie a Mario Isnenghi e al suo Le guerre degli italiani, quei materiali vengono inseriti nel cantiere di ricerca nel frattempo apertosi sui processi di formazione e sulle vicissitudini della costruzione dell’identità nazionale.

Negli ultimi due decenni ottimi contributi sono arrivati da Emilio Franzina (Inni e canzoni) e Stefano Pivato (Bella ciao. Canto e politica nella storia d’Italia) e a questi studi critici si legano anche alcune produzioni discografiche che dimostrano di tenere in gran conto l’importanza delle canzoni della Grande Guerra. Nel 2001, tanto per dire, il “principe” dei cantautori, Francesco De Gregori, con il brano Spad VII, S2489 rievoca la fi gura di Francesco Baracca per mettere in luce lo scollamento dalla realtà e l’illusorietà dei miti di stampo futurista personificati dall’eroe-aviatore. Quattro anni più tardi Massimo Bubola, non per nulla tanto vicino a Fabrizio De André nel suo percorso artistico, pubblica Quel lungo treno, un intero concept album dedicato alla guerra del ’15-’18 e recentemente, per il centesimo anniversario dall’inizio del conflitto mondiale, torna a occuparsi della Grande Guerra con il nuovo progetto Il testamento del Capitano, che contiene “classici” intercalati a ballate originali sul tema della trincea.

Un armistizio della memoria
Si può dire, dunque, che varie memorie sono andate sovrapponendosi in questi cento anni. Ma recentemente sembra essersi finalmente delineato un percorso di sintesi. La Presidenza del Consiglio, in primis, sembra determinata ad assumere il ruolo di imprenditore sociale della memoria facendo sì che le iniziative per il centenario non si riducano a celebrazioni rituali. Basta guardare il sito appositamente creato dal governo per questa ricorrenza (www.centenario1914-1918.it). Tutte le manifestazioni previste, infatti, pur partendo inevitabilmente dal Vittoriano, si snodano attraverso i luoghi della Grande Guerra rivisitati però al di là di una troppo vincolante localizzazione territoriale. Da trincee e camminamenti che costeggiano i teatri del conflitto si irradia infatti una varietà di proposte che tiene conto di tutti i “materiali” utili ad andare oltre la memoria a breve termine degli individui: concerti, mostre ed esposizioni, rappresentazioni teatrali, percorsi sportivi, conferenze e convegni, proiezioni e tutto ciò che concorre ad alimentare una narrazione collettiva di vasto respiro sulla Grande Guerra.

Ma, come già detto, si tratta di un cantiere ancora aperto. Infatti, nonostante la storiografi a degli ultimi decenni abbia saputo offrire interessanti approcci ai vari problemi e ai diversi attori della società prendendo come punto d’osservazione la Grande Guerra (propaganda, stampa, operai, donne, prigionieri, specifici gruppi politici, ideologici e sociali, canti, come in questo caso ecc.), una ricostruzione a tutto tondo ancora manca. Letture così frammentate per compartimenti stagni, se non addirittura per feudi interpretativi, dovrebbero confluire in una grande, pervasiva, narrazione in grado di spiegare dal punto di vista storiografi co quella che fu – di fatto – una catastrofe collettiva.

L’opportunità di questo centenario, ad esempio, non sembra per ora sia stata pienamente colta dall’intera Europa come momento di riflessione su una storia comune, la “nostra” storia di cittadini del Vecchio Continente. E una riflessione così profonda, per quanto attiene l’ambito di cui si è qui parlato, potrebbe partire da una sorta di “armistizio della memoria”, accompagnato da un canto fatto di silenzio. Un canto che si potrebbe intonare, per esempio, il Quattro Novembre: una giornata che – forse complice un calendario poco incline ad aperture d’animo collettive o forse troppo vicina alla ricorrenza dedicata ai defunti – si stenta a celebrare come la festa di una vera “vittoria”.


* Paolo Colombo è professore ordinario di Storia delle istituzioni politiche presso la Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove insegna anche Storia contemporanea. Tra le sue pubblicazioni: Il re d’Italia. Prerogative costituzionali e potere politico della Corona (1848-1922) (1999), Storia costituzionale della monarchia italiana (2001), Governo (2003), La monarchia fascista. 1922- 1940 (2010).

* Gioachino Lanotte, dottore di ricerca in Società Europea e Vita internazionale nell’Età moderna e contemporanea, insegna Storia contemporanea presso la Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Tra i suoi lavori: Cantalo forte. La Resistenza raccontata dalle canzoni (2006), La corsa del secolo. Cent’anni di storia italiana attraverso il Giro (con P. Colombo, 2009), Il «quarto fronte». Musica e propaganda radiofonica nell’Italia liberata (2012).