Non basta dedicarsi alla formazione dei giovani. L’università deve ritrovare il proprio ruolo culturale e un nuovo senso di responsabilità verso tutta la società italiana. Nando Pagnoncelli, presidente per l’Italia del gruppo demoscopico Ipsos e docente all’ateneo di largo Gemelli, risponde in questo modo alle sfide che il Paese ha davanti soprattutto in relazione a un tempo in cui, per la prima volta nella storia repubblicana, i figli staranno peggio dei genitori.

Pagnoncelli ha affrontato il tema nell’articolo pubblicato sul bimestrale dell’Università Cattolica “Vita e Pensiero”, da cui ha preso le mosse il dibattito che ha messo a confronto, lo scorso 1° giugno, nell’omonima libreria il sondaggista con il demografo Alessandro Rosina. Un’analisi che, dati alla mano, parte dalla problematica giovanile del precariato e si amplia fino a diventare un’indagine che coinvolge la società tutta, le trasformazioni cui sta andando incontro, fornendo – se non ancora la soluzione – certamente un punto di partenza utile a trovare la via giusta per ridare alle nuove generazioni fiducia in sé stessi e capacità di costruirsi un futuro.

All’interno di questa analisi, il ruolo dell’Università si configura come una questione fondamentale: nell’ottica di Pagnoncelli non può più sussistere un’università che semplicemente si impegni a formare i giovani per il lavoro. L’obiettivo primario deve invece essere quello di «allargare la prospettiva, enfatizzare il proprio ruolo culturale», cogliendo «la sfida educativa rappresentata dal tema della cittadinanza e dalla consapevolezza del ruolo e della responsabilità sociale degli individui».

È da qui che ha preso avvio la conversazione nel corso dell’ultimo dei “Mercoledì di Vita e Pensiero” della stagione. Il professor Rosina ha proseguito la riflessione sollecitando l’amministratore delegato di Ipsos ad approfondire alcune questioni cardine. Innanzitutto il tema della scelta: «In un clima di incertezza i giovani scelgono di non scegliere», ha detto il professore. Il problema della precarietà è senz’altro il protagonista di questa dinamica, ma ci sono altri fattori eminentemente sociologici che concorrono a creare una «divaricazione crescente fra individuo e società». Primo fra tutti l’individualismo, fomentato dalla percezione della persona prima di tutto come consumatore e quindi come «portatore di opinioni, elettore, portatore di diritti». E quando l’individualismo supera una certa soglia, viene meno il senso di appartenenza.

Il ritratto del giovane di oggi – a tratti impietoso ma più che mai realistico – che è emerso dalla conversazione tra Pagnoncelli e Rosina, è quello di un individuo che fatica ad assumersi la responsabilità di una vita indipendente dalla famiglia che, più di quanto non sia accaduto in passato, lo sostiene in tutti i suoi bisogni e non favorisce la sua autonomia. L’identikit del giovane-tipo si completa con una formazione di livello spesso molto alto e con un’ottima preparazione a fronte di contratti di lavoro mortificanti o, addirittura, inesistenti. Tanto che, fa notare Pagnoncelli, in Italia è troppo alto il numero di neet (non in education, employment or training), con la tendenza di molti a non cercare nemmeno più un impiego, tanta è la sfiducia nelle proprie possibilità di inserimento nella società. Se si devono individuare dei responsabili per questa situazione, il dito si punta contro la politica: «Le attuali politiche per la famiglia, come il bonus bebè» asserisce Pagnoncelli, «non sono politiche costruttive e lungimiranti, ma anzi concorrono a cronicizzare la situazione presente». Ma il problema è, oltre che politico, culturale: «Oggi chi è adulto si tiene il suo sapere. Le aziende non valorizzano i giovani meritevoli, come invece viene fatto in molti altri Paesi europei». La soluzione è quindi cambiare rotta, e in questa inversione l’università deve fare la sua parte, rimettendo al centro la sua missione educativa e lavorando per ricostruire nelle coscienze dei giovani il senso di cittadinanza e di appartenenza.