C’è un’aula dell’Università Cattolica gremita di studenti armati di cellulare con fotocamera. Tutti hanno sul banco un solo libro: Il tempo che vorrei.  Applausi, risate e sorrisi. Con venti minuti di anticipo arriva un insolito professore di “scrittura creativa”: sbadiglia, nonostante siano le 16.30. È lui. È Fabio Volo. L’occasione è la presentazione della sesta edizione del corso di scrittura dell’Alta Formazione che partirà in febbraio. La conseguenza è una lezione fuori dal comune. Fabio Volo, ex cathedra, contagia l’intero tavolo di professori seduti al suo fianco che si lasciano provocare a suon di battute e seppur divertito, il direttore scientifico, Ermanno Paccagnini, lo interrompe: «Credo che possa essere il momento per iniziare».

La sua ultima creatura ha già venduto, in poche settimane, diverse centinaia di migliaia di copie, ma quando Fabio Volo smette l’abito di intrattenitore, si sente sotto esame: «Non ho nessun passato da studente -spiega l’autore - . L’essermi fermato alla terza media non è né un vanto né una vergogna. Ho imparato solo che per essere uno scrittore bisogna essere un grande lettore». È così che inizia a citare Omero, Picasso, Shakespeare e Michelangelo, fino ad arrivare al Paradiso dantesco: «Eh, questo non lo sapete. Voi, della Commedia, conoscete solo l’Inferno: quando si arriva alla terza cantica si fa di corsa perché si è in ritardo sul programma. Questo libro nasce proprio dal profondo amore che nutro per la letteratura: ad un certo punto ho sentito il desiderio di dire la mia». Fabio Volo sa essere anche uno studente irriverente. Nel libro scrive: “Rubare è alla base di qualsiasi processo creativo”. Cosa significa? «Io faccio copia-incolla. Mi piacciono Dante e Dostoevskij, questi miei colleghi - scherza -. Tu li leggi, li capisci e dici: perché rovinarli? Sono già perfetti così. Li prendo come i numeri, sono di tutti».  E, a proposito di citazioni: «Un giocatore della Fiorentina – ride - si è tatuato una mia frase, ma non sa che l’ho copiata da un altro».

Sa perfettamente oscillare dall’alto al basso, Fabio Volo. Entra in polemica con quegli intellettuali che “non aprono la porta” ai suoi libri, ma poi smentisce: «Io a quella porta non ho mai bussato!». E continua: «Ora dicono che non li scrivo io: se dovevo pagare uno per i miei libri, ne sceglievo uno più bravo! Non ho deciso di fare il letterato e il mio scrivere “basso” non è una scelta: questo è il massimo che posso fare». Intanto, lui, legato al suo pubblico come ad un cordone ombelicale, raddoppia le vendite ad ogni nuova uscita. E il fatto di trovarsi davanti ad un pool così eterogeneo di professori e studenti, la dice lunga: «All’inizio comprare un mio libro non era una cosa bella. Lo si doveva infilare dentro ad un altro per poterlo leggere in pubblico. Ora non so…». Non si tratta di fishing for compliments. Con questo nuovo romanzo le critiche non sono state poche: bamboccione, non-scrittore, banale.  «È ovvio che io sogno di essere Dostoevskij dalla prima pagina, però non mi sono mai venduto per quello che non sono. Oggi, per esempio, sono qui alla Cattolica solo perché sono single…». E da questo momento è una valanga di domande (risposte) e curiosità: con toni, a tratti da Baciperugina, a tratti da Frate Indovino. Fabio Volo usa la semplicità come fosse un vero dono, non solo il frutto del suo successo.

È una vita che ti aspetto (2003), Il giorno in più (2007) e ora Il tempo che vorrei: problemi con lo scorrere delle lancette? «Sì, è una mia paranoia. Ho la fobia di non avere mai tempo. E in quest’ultimo libro parlo anche  di un rapporto tra padre e figlio in relazione al corso degli eventi  e della crescita». E poi c’è spazio per l’amore, il sesso, la convivenza ed il suo ormai famoso cinismo sulle “relazioni a scadenza”: «Le donne che descrivo sono come Frankestein. Un mix di quello che cerco. Infatti mi tocca uscire con un sacco di donne quando scrivo, è una di quelle cose noiose che vanno fatte per lavoro». Un accenno anche alla stravagante copertina: «È una fotografia fatta da me, sul davanzale di casa. Un barattolo di marmellata pieno di lucine di Natale. Si tratta di un totem di padre: un uomo che ha molte luci dentro di sé, ma ha bisogno di una mano esterna per essere aperto». Nel libro precedente il protagonista sognava di avere un figlio, ora torna ad essere un figlio: è un passo indietro? E poi ancora: quello che descrivi è un homo faber? «Homo faber? Fabri Fibra?». Un suono fa capire che la lezione è giunta al termine: «La storia si ripete - conclude Fabio Volo, con un sorriso - . Salvato ancora dalla campanella».