di Damiano Palano *

Presentate dal Premier uscente Mark Rutte come il “quarto di finale” nella competizione che oppone l’Unione europea al “populismo”, le elezioni olandesi del 15 marzo hanno in parte smentito i timori della vigilia, alimentati peraltro anche dalla crisi diplomatica con la Turchia esplosa negli ultimi giorni della campagna. Agli occhi di molti, la principale posta in gioco in queste consultazioni era in effetti proprio il destino dell’Europa. Perché, dopo l’esito del referendum sulla Brexit e dopo la vittoria di Donald Trump, molti temevano che una sonora affermazione del Partito della Libertà guidato da Geert Wilders – sostenitore della necessità di una “Nexit” – avrebbe potuto aprire un nuovo fronte problematico nelle già tormentate vicende della Ue.

Il responso delle urne ha in parte smentito i sondaggi degli ultimi mesi (le cui tendenze peraltro nelle ultime settimane erano state sensibilmente ridimensionate), probabilmente anche per l’elevato afflusso al voto (82% contro il 74,6% del 2012). La crescita di Wilders si ferma infatti al 13,1% e a 20 seggi, 5 in più rispetto alle precedenti elezioni ma comunque molto al di sotto del 21,2% e dei 33 seggi ottenuti dal partito di Rutte (Vvd). Molti commentatori hanno salutato questi risultati come una vittoria dell’Europa contro l’ondata populista ed euroscettica (oltre che xenofoba). La “diga olandese” – come ha d’altronde trionfalmente affermato Rutte dopo gli exit poll – avrebbe dunque retto dinanzi alla minaccia, rimanendo fedele alla propria tradizione.

Guardando i dati, il quadro non può però non apparire un po’ diverso. In primo luogo, la coalizione di governo esce drammaticamente ridimensionata dalla prova elettorale. In particolare, il partito di Rutte perde 8 seggi rispetto al 2012, ma sono soprattutto i laburisti del Pvda a subire un autentico tracollo, passando da 38 seggi a 9. Alcune formazioni moderate, come i liberali progressisti di D66 e i cristiani democratici di Cda, ottengono un buon risultato (conquistando entrambi 19 seggi), ma, per effetto della flessione dei due principali partiti, la formazione di una compagine di governo sarà comunque molto complicata.

In secondo luogo, un dato che emerge è proprio la grande frammentazione. La “democrazia consensuale” olandese è da sempre strutturata su un sistema multipartitico, ma nella Camera bassa saranno presenti questa volta tredici partiti, ognuno dei quali rischia di risultare vitale per la formazione del governo. E per quanto il sistema olandese sia abituato da sempre a esecutivi basati su coalizioni anche ampie, in questo caso neppure una “grande coalizione” avrà probabilmente i 76 seggi necessari per un governo stabile e sarà dunque necessario trovare formule innovative.

Ma l’aspetto più rilevante di questo appuntamento elettorale è probabilmente legato alla dinamica del sistema politico olandese, e in particolare all’aumento delle tendenze centrifughe. L’effetto della propaganda di Wilders non può essere circoscritto semplicemente al dato delle urne. Perché in realtà ha indotto Rutte a inseguire il Partito della Libertà sul suo stesso terreno e ad appropriarsi di molti dei suoi temi. Al tempo stesso, il clamoroso fallimento dei laburisti ha aperto nuovi spazi a sinistra, occupati per esempio dagli ecologisti (arrivati al 9%) e dal partito antirazzista Denk, che approda in Parlamento con 3 seggi.

Com’è avvenuto in altre elezioni, anche in questo caso la tendenza sembra dunque verso una significativa polarizzazione del sistema partitico, cioè verso l’aumento della distanza ideologica tra i diversi partiti. E anche per effetto di queste tendenze è piuttosto ingenuo ritenere che davvero il “quarto di finale” olandese abbia segnato una vittoria a favore dell’Ue. Il partito di Rutte, uscito notevolmente ridimensionato dalle urne, non potrà certo rimanere insensibile alla propaganda anti-europeista e anti-islamica di Wilders. E non mancherà anche per questo di rafforzare proprio quella linea che – su temi chiave, come l’economia e i rifugiati – approfondisce la frattura tra Nord e Sud del Vecchio continente. Forse si potrebbe dire – rimanendo nella metafora calcistica – che le forze europeiste hanno fatto ricorso al vecchio “catenaccio”, limitando i danni. Il problema è che non si tratta di un “quarto di finale”, ma probabilmente di un lungo ed estenuante girone all’italiana, la cui conclusione è ancora molto lontana.

* docente di Scienza della politica, facoltà di Scienze politiche e sociali