di Francesca Gattuso *

Wazungu! Wazungu! Dai lati della strada piccoli indici puntano rapidi verso la nostra jeep che, svicolando dalla morsa del traffico pomeridiano di Iringa, sta tentando di trasportarci finalmente fino alla nostra destinazione. Dico finalmente perché, prima di arrivare su questa jeep, ci sono stati diversi chilometri distribuiti tra due aerei transcontinentali, un’altra jeep intrappolata tra le grinfie ben peggiori del traffico della capitale tanzaniana Dar es Salaam e un allegro autobus alle prese con un rocambolesco itinerario montano. «Sono alla fine del mondo - penso guardando fuori dal finestrino - e devo ancora andare oltre».

Un venditore ambulante si accosta alla jeep. Sulla testa un cesto pieno di uova sode, complete di sale sul guscio per improvvisare un condimento. Gli sorrido, ma gli faccio cenno negativo. Dimostrando un ottimo spirito di adattamento imprenditoriale, col braccio rimasto libero mi tende un ciuffo di sandali. Sorrido di nuovo di rimando e questa volta ho il tempo di accorgermi degli sguardi che scorrono lenti alle spalle del venditore. Qualcuno, raramente, vedendosi scoperto, abbassa lo sguardo. Nella maggior parte dei casi, la curiosità ha la meglio. I piccoli, poi, ci additano platealmente: Wazungu! Wazungu! Eh si, da queste parti non se ne devono vedere molti di wazungu, cioè di bianchi.

Dopo ancora una buona mezz’ora di viaggio, la jeep rallenta e svolta verso un cancello e si fa largo in un cortile sterrato, sollevando una nube di polvere. Riesco a distinguere la spessa scritta grigia Kituo cha watoto yatima che campeggia sull’ingresso principale della struttura. Prontamente arriva la traduzione dal kiswahili della nostra guida: alla lettera “il posto dei bambini orfani”. L’autista fa appena in tempo ad aprire il portellone della jeep per farci uscire, che veniamo letteralmente sommerse da una marea di urla gioiose e colori, ancora più vividi in quella luce particolare che ho scoperto in Africa, che oltre a piovere dall’alto, sembra scaturire da tutti gli elementi del paesaggio.

Piccole mani si tendono verso di noi, tirano i vestiti reclamando la dovuta attenzione, si intrecciano alle nostre dita, portano via gli occhiali da sole, altre nel frattempo si precipitano sulle valigie, cercando caparbiamente di superare la sproporzione tra la propria forza e il peso abnorme dei bagagli. Sono i bambini a farci strada verso quella che sarà la nostra casa per le prossime due settimane. L’avventura è iniziata.

Cercare di spiegare a posteriori ciò che ha rappresentato questo viaggio nel cuore della Tanzania, ciò che ho avuto l’opportunità di vedere è, ogni volta, una nuova scoperta, motivo di incanto e di enigma. In questo Paese, stretto in un confuso crocevia spazio-temporale, le contraddizioni sono frequenti e profondissime. Non c’è, quindi, da meravigliarsi d’incontrare sul proprio cammino un guerriero masai, maestoso nel rosso cupo dell’abito tradizionale del suo popolo, completamente assorbito da un’animata telefonata al cellulare.

La continua rincorsa di bisogni artificiali, nati dalla fascinazione verso gli stili di vita imposti dall’Occidente, non possono che scontrarsi con i problemi effettivi che affliggono ancora la nazione. Primo tra tutti, ovviamente, l’Hiv/Aids, flagello diffuso a livello endemico, con un picco spaventoso nella capitale. Per non parlare di povertà, malnutrizione e violazione dei fondamentali diritti dell’uomo. Tutte le domande e i conflitti che l’incontro/scontro con la Tanzania ha generato e continua a generare in me e nelle mie compagne di viaggio sono stati in parte stemperati dalla purezza dell’affetto dei piccoli dell’orfanotrofio, ai quali mi capita spessissimo di ripensare con un nodo alla gola.

La loro dolcezza e il bisogno di amore, la gioia e la gratitudine che sono riusciti a trasmetterci per il poco tempo che abbiamo dedicato loro, in un certo senso, mi ripagano dei diversi “pugni nello stomaco” che la Tanzania non mi ha risparmiato. Inoltre, non potrò mai dimenticare gli esempi di vero coraggio e solidarietà dei diversi missionari che abbiamo avuto modo di conoscere: persone che hanno destinato spesso la maggior parte della loro esistenza a una lotta non violenta contro i principali problemi che tengono sotto scacco questo paese, ricco di risorse naturali e forte di una coesione interna sconosciuta al resto dell’Africa.

Sono alla fine del viaggio, la nostra jeep carica di bagagli semi-vuoti ci attende in cortile con il motore acceso. Mentre mi allontano e mi preparo a rifare tutto il percorso al contrario, sento che la Tanzania mi ha spogliata di tutto. Di idee maturate su immagini riflesse, di ingenue convinzioni mai messe in discussione, dei discorsi pieni di inconsapevole retorica. Per rivestirmi, tuttavia, di una diversa consapevolezza del paese che ho visitato e, quello che è più importante, di me stessa. «Sono dovuta arrivare alla fine del mondo - penso riconoscente - per capire che c’è sempre un oltre».

* 25 anni, di Martina Franca (Ta), laureata in Filologia moderna, facoltà di Lettere e filosofia, sede di Milano, collegio Marianum