di Ilaria Romito *
Ecco che l'abisso si mescola al blu profondo di questa notte. Notte vergine, vergine per me che la guardo tutti i giorni e mi appare sempre diversa, sempre più bella. La notte mi ricorda la pace del Darièn, quella tranquillità rubata alla nostra civiltà, la calma di un fiume, un viso che guarda, una lancetta che scorre lenta. «Nemmeno dentro al cesso possiedo un mio momento» cantava Guccini: parla della nostra società, della nostra maledetta corsa. L’unico problema è che nessuno si chiede il perché. A Sambù le ore sembravano dilatate, avevo il tempo per una passeggiata, di giocare a nascondino con i bambini, di una chiacchiera con padre Hector.
È impossibile non accorgersi di entrare in Darièn, le strade cominciano a farsi frastagliate, sempre meno case, sempre più capanne, la foresta via via divora il paesaggio lasciando spazio all’immensità di quella natura ancora intatta. Tac, perdo la linea cellulare. Sì, siamo entrati nel Darièn. Cercare Sambù sulle pagine di Internet era già stata un’impresa difficile. Entro in Google Maps, scrivo “Sambù”, villaggio indigeno nella comarca del Darièn: esce fuori un aeroplanino che indica un punto disperso dell’oceano Pacifico. Provo a parlare con i panamensi, chiedo di questo angolo di paradiso, la gente mi risponde con distacco, mi racconta degli indigeni, gli Emberà Wouannan, molti hanno paura, capisco che è un luogo avvolto dal mistero, un luogo di cui non si parla molto. I bambini mi accolgono calorosamente: «Hola mama, como te llamas?» Mi accarezzano la mano, incrociano il mio sguardo, giocano scalzi senza preoccuparsi di farsi male o di sporcarsi. La gente passeggia lungo la piazzuola, saluta gli stranieri. Chissà perché noi europei non ci salutiamo per strada, perché sfuggiamo gli sguardi, corriamo, produciamo. È il frutto della nostra civiltà - mi rispondo -, il frutto dello sviluppo, del miglioramento dell’uomo. Poi entro nel “centro de salud”, dove scorrevano le nostre mattinate. La gente timida si avvicina a noi studenti di Medicina, si lascia visitare. Alcune donne sono più restie: «Tienen miedo». Le mie mani affondano nel corpo dei pazienti, misuro la frequenza cardiaca, ausculto cuore e polmoni.
I pomeriggi scorrevano lenti pieni di interrogativi senza risposta: chissà perché questo popolo non ha avuto la capacità di evolversi? Chissà perché non ha voglia di andare via, di scoprire cosa c’è al di là del “Rio”? Sarà forse un retaggio culturale l’idea di voler rendere questi luoghi mondi migliori… che per noi europei significa renderli più simile al nostro? Allora perché io, come tanti altri, sento la spinta di fuggire dal tran-tran quotidiano per rifugiarci in posti dove non è ancora arrivata la civiltà?
Ecco perché Sambù ha i colori della notte, quelli dove il traffico della città si spegne e lascia spazio alla riflessione. È il canto di “una mattina” di Eianudi, lento e speranzoso; è un uomo cieco che riacquista la vista; è il colore di quei bambini dipinti con inchiostro nero; è l’odore del fiume in piragua; è una corsa sotto quella pioggia tropicale; è una scarpa sporca di terra; sono io tornata bambina, che riesco a sorridere in una realtà che apparentemente non aveva niente. E forse di quel niente che mi sono riappropriata a Sambù, quel niente ormai scontato nella nostra società, quel niente sterile nel nostro mondo ormai avanzato. E adesso che quella “bianca cecità” è andata via dai miei occhi, non posso altro che fare di questa luce il mio cammino, mettermi un camice e correre nelle nostre nuove e lussuose corsie d’ospedale e aspettare solo di risporcarmi le mani con quella terra bagnata.
* 21 anni, quarto anno di medicina e chirurgia, sede di Roma, collegio San Luca - Barelli