di Alessandra Paolucci *

Alessandra Paolucci (a destra) con Giulia Lupi e un chirurgo ugandeseSe dovessi riassumere in una parola “la mia Africa”, l'aggettivo più calzante sarebbe “caleidoscopica”. La terra dalle mille sfaccettature, con i suoi colori, intensi e decisi, il rosso delle terra che si scontra con l'azzurro del cielo, ma che si incontra e continua nel nero dei volti.

L'Africa degli sguardi e degli incontri, tanto intensi gli uni quanto frenetici ma mai fugaci gi altri. Fonte di esperienze ed emozioni, sia in positivo che in negativo, sorgente di crescita professionale ma soprattutto umana. Un mondo altro rispetto al nostro, che richiede di essere assaporato e vissuta lentamente, che si capisce a poco a poco ma che, allo stesso tempo, è impossibile da comprendere fino in fondo.

La mia Africa è caleidoscopica anche nelle sue mille contraddizioni, è spunto di domande e di riflessioni, quasi mai di risposte; di autoanalisi, di critica e di autocritica, di crescita interiore. La cosa ancora più stupefacente, è che oltre alle emozioni che ti offre nel presente, ti lascia una sensazione viscerale, un misto di incredulo e di malessere, di cui ti rendi conto solo quando manca.

Credo che il tanto discusso “mal d'Africa” sia l’insieme di queste cose: la sofferenza che hai visto, che hai letto negli occhi degli africani, la loro dignità, il decoro che non li abbandona mai, la rassegnazione, ma allo stesso tempo la forza con cui affrontano la vita quotidianamente, il differente senso della stessa vita, e la speranza, dopo tutto.

Mal d'Africa è anche non essere in grado di raccontare a parole tutto ciò che hai visto, che hai provato e che senti, e dire con un po' di retorica: «Non si può capire, se non si è vissuta», perché nessuno può comprendere fino in fondo l'Africa, neanche chi ci è stato e ha avuto l'opportunità di vivere un'esperienza così intensa.

Sarebbe bello, ma presuntuoso affermare di aver afferrato una realtà così complessa. L'unica cosa da fare è viverla sul momento, alla giornata, lasciandosi cullare dai ritmi locali, e portarla con sé, per quanto ci è concesso. “La mia Africa” è quel pezzo di me che è cambiato per sempre, che d'ora in poi mi farà guardare alla vita con occhi diversi, in maniera più critica e consapevole.

Il Charity Work Program nasce come un'esperienza di solidarietà ed è con queste finalità che ci viene proposto. Ora posso sicuramente affermare che questo viaggio sia andato oltre. Gli africani hanno tanto da insegnarci, soprattutto in termini di dignità e di umiltà. Ne abbiamo altrettanta per abbracciare quanto gli “altri” hanno da offrirci?

Da futuro medico credo che sia importante toccare con mano una realtà in cui la vita ha un significato tanto diverso. Queste tre settimane sono state per me soltanto l'inizio di un viaggio, più intimo e profondo. Mi hanno costretta a pormi tante domande, come donna, futura madre e medico: interrogativi sul senso della vita e del “fine vita”, domande per cui non esiste una risposta univoca ma solo punti di vista diversi, non giusti né sbagliati, ma più o meno condivisibili.

* Neo laureata Medicina e chirurgia, facoltà di Medicina e Chirurgia, sede di Roma