di Massimo Apicella *

«In Africa c’è bisogno di persone. Tutti, medici e non, dovrebbero andarci per capire davvero questo continente, con tutti gli aspetti e le emozioni che a parole è difficile trasmettere». Di solito introduco così il discorso quando qualcuno mi chiede di raccontargli qualcosa della mia esperienza. È di persone di buona volontà che c’è bisogno più che di tecnologie o di modelli di vita preconfezionati per l’esportazione. Pur essendo tornato da poco, già sentendo il “mal d’Africa”, vorrei ritornare quanto prima e portare con me tutti coloro che mi chiedono incuriositi di quel Paese tanto lontano, che qualcuno addirittura non saprebbe trovare sulla carta geografica, con un modo di vivere tanto diverso. Se l’ascoltatore ha tempo, poi, proseguo anche per ore con il racconto dettagliato delle esperienze che davvero mi hanno mostrato il cuore dell’Africa, con le sue ferite e la sua forza straordinaria e intanto ripenso a tutti i volti che non potrò mai dimenticare.

Penso prima di tutto a un ragazzo della scuola di padre John, che al nostro arrivo era stato appena ricoverato nel nostro ospedale perché aveva una piaga da decubito che, grazie alla fortunata presenza in quei giorni di un chirurgo italiano, era possibile ricostruire. Era diventato paraplegico in un incidente avvenuto anni prima, ma sulla sedia a rotelle si muoveva con una velocità da lasciare tutti a bocca aperta. Per tutta la durata del ricovero la mattina si recava da solo a seguire le lezioni nella scuola vicina e il pomeriggio faceva i compiti, studiava il commercio degli schiavi e l’organizzazione del regno del Buganda.

Ricordo ancora una ragazza della mia età che ha rischiato la vita per una gravidanza extrauterina, per il ritardo nel rivolgersi ai medici e per il ritardo nella diagnosi. Era così debole che a stento riusciva a lamentarsi per i forti dolori addominali. Quando la vidi per la prima volta, avrei detto che sembrava pallida, nonostante la pelle scura. C’era poi tanta, tantissima malaria, un gravissimo pericolo per i bambini. Tanta sofferenza e poi, all’improvviso, un parto e il miracolo della vita. Le primipare hanno spesso la mia età, non di rado sono più giovani, e partoriscono con una sopportazione del dolore invidiabile. Nel Bombo Military Hospital le donne che hanno avuto bisogno di un cesareo occupano i pochi letti spartani, chi ha partorito senza complicazioni, invece, riposa a terra. Sembra una caserma, o forse un accampamento più che un ospedale.

Nella sala a fianco c’è la camerata maschile, dove a terra trovo un giovane di trent’anni al massimo con le convulsioni da malaria cerebrale. «La malaria è ancora un problema grave nelle zone rurali - mi spiegano -; in città la gente si rivolge a noi quando avverte i primi sintomi, ma nei villaggi i malati iniziano a cercare un dottore quando hanno già l’ittero e parassitemie così gravi che spesso le prime cure non bastano e non possiamo farci niente, così a volte muoiono poco dopo l’arrivo in ospedale».

Nell’affollatissima sala, sempre a terra, è pieno di stuoie per i parenti dei pazienti e ciascuno si stabilisce sotto il letto del proprio caro per badare alle sue necessità pratiche basilari, visto che l’assistenza infermieristica è molto ridotta. Mi commuovo alla vista di una moglie che assiste con affetto autentico il marito con l’Aids che ha perso la vista, ha già una polmonite opportunistica e il morbo di Pott. L’umanità, la disponibilità, la dedizione nel proprio lavoro, sono valori universali del buon medico di qualsiasi Paese, valori che il dolore, che “ha una voce e non varia”, ispira e insegna da sé a un cuore ben disposto.

Lì, però, dove la medicina è un atto semplice di sollievo del bisognoso, libera da sovrastrutture e dal contenzioso legale e appare più pura, più naturale, mi si è offerta come un’illuminazione, un’intuizione sull’essenza del servizio, che nell’ottica cattolica si pone come un valore fondamentale della missione medica. Tutto questo sembrava concretizzarsi nel vedere un medico inginocchiarsi alla realtà umana più disperata, quella di una donna che si è procurata un aborto, senza colpevolizzare, mettendo da parte pregiudizi e giudizi, cercando di stabilire un contatto profondo, di mettere a proprio agio la donna al massimo della sua debolezza, fisica e psicologica, sanguinante, con la paura dipinta in volto. Capiamo subito che per abortire era andata da uno “stregone”, figura ancora radicata nel suo ruolo religioso solo nei villaggi, ma che in altri contesti procura l’aborto alle gravide che gli si rivolgono. Uno studente mi spiega le diverse modalità e i dettagli, sono terrificanti, da rabbrividire.

Fuori dall’ospedale facciamo un giro tra le baracche di Luzira, quartiere periferico della capitale Kampala. Un minatore che riposa steso a terra vicino ai picconi tra le capre somiglia tanto a un pastore del presepe. Due bellissime “crested crane” si posano fiere sulle rive del lago. I bambini scalzi per le strade giocano davanti alle baracche poverissime dei genitori. Eppure qui si respira un’atmosfera di festa. I bambini ci fermano lungo la strada “Mzungu, give me sweets!”, si mettono in posa chiedendo di fare loro una fotografia che non vedranno mai, i passanti ci salutano amichevolmente e noi, che in un primo momento sentiamo un vago senso di inadeguatezza alla situazione, ci lasciamo andare alla loro gioia per le cose semplici. La povertà è tutta intorno ma è discreta, non è disperata, è “sorella”.

Abbiamo anche l’onore di incontrare suor Clementine, che con tre o quattro sorelle si occupa di più di ottanta bambini nel “Family of Africa”. Parlando un misto di francese, inglese e siciliano ci racconta la storia di alcuni di loro. Alcuni sono orfani, altri sono stati abbandonati da piccoli dalle madri che si prostituiscono, altri ancora hanno i genitori in carcere, altri infine vengono portati lì dalla famiglia che semplicemente non sa come mantenerli e non ha neanche lo spazio per farli dormire nelle casette strettissime. Ci spiega che tutto è nato dal nulla, da quando all’inizio alcuni genitori abbandonavano i bambini fuori dalla sua parrocchia, in poco tempo si sono organizzati per dare ospitalità sempre a più persone, sono cresciuti come il “chicco di senape” del Vangelo e ora sono un punto di riferimento per tutta Luzira.

Vive con quello che le offre la Provvidenza tramite le donazioni e quando le chiediamo cosa possiamo portarle noi, un po’ restia a chiedere ma vinta dalla nostra insistenza, ci dice che le servono delle lenzuola perché in alcuni periodi arrivano tanti bambini da tutto il quartiere che non sa più dove sistemare e quindi devono dormire a terra, ma con le lenzuola almeno avranno un po’ più di dignità. Il suo sogno è costruire una scuola elementare tutta loro e ci presenta con orgoglio alcuni dei suoi “bambini” più cresciuti che si avviano a imparare un mestiere. Due studiano medicina.

Non ne abbiamo mai abbastanza del tempo speso con i bambini, sono sempre entusiasti all’arrivo del mzungu ma il piacere di stare lì è tutto nostro. Chiedono caramelle, ma vogliono soprattutto tanto affetto. Poi purtroppo arriva, sempre troppo presto, il momento di andarsene. Dopo aver trascorso un po’ di tempo tra i più semplici, l’Africa ti conquista e puoi guardare agli standard di comodità borghese di noi europei come a valori assolutamente relativi, nulla di indispensabile in toto, non un traguardo assoluto in ogni contesto storico-culturale. Intanto posso rallegrarmi vedendo nell’entusiasmo e nella passione di Andrew, mio collega prossimo alla laurea nell’università di Makerere, il futuro di un paese che spera in un rinnovamento e probabilmente, con un po’ di adeguato sostegno, è prossimo al cambiamento.

* 21 anni, terzo anno della laurea in Medicina, facoltà di Medicina e Chirurgia, Collegio Nuovo Joanneum, sede di Roma