Elena Jane Mason *

Ventuno giorni fuori dal tempo e fuori dal mondo. Nella nostra esperienza in Ghana, siamo stati bruscamente allontanati dalla nostra routine quotidiana e immersi in un’altra vita, ci siamo sentiti medici anche se studenti, stranieri ma partecipi della realtà locale. Molto distanti dai rari turisti bianchi che capitava di scorgere per strada.

La nostra giornata iniziava alle 7, quando aprivamo gli occhi sulla zanzariera che avvolgeva i nostri letti. Dopo esserci liberati della trappola infernale e preparati, scendevamo al piano inferiore della casa che avevamo imparato a sentire come nostra: “Good morning” esclamava energicamente Victoria, la nostra enorme governante. “È pronto!”. Ci sedevamo al tavolo della colazione, ormai abituati ma ancora estasiati dal sapore di mango, ananas e papaya locali che Victoria preparava ogni mattina. Alle 8 africane, quindi variabili tra le 7.45 e le 8.30, arrivava Zacharia con l’ambulanza e, dopo quindici minuti di insolite canzoni pop a tematica religiosa, arrivavamo a Biriwa, il piccolo villaggio di pescatori in cui si trova il Baobab Medical Center (Bmc), il nostro ambulatorio.

Dal primo giorno di lavoro avevamo appreso la nozione più spaventosa e al contempo più eccitante della nostra brevissima carriera di giovani medici: al Bmc non c’è un medico locale. Eravamo in tre: una specializzanda, che è stata il nostro punto di riferimento, e due studenti del quarto anno, abituati nel nostro ospedale a essere semplici osservatori o poco più. Improvvisamente ci siamo trovati ad assumere la responsabilità di pazienti, di persone vere. La reazione più naturale è stata quella di formare una squadra. Abbiamo affrontato la prima giornata in formazione, ognuno cercando di mettere sul piatto quanti più spunti o nozioni ricordasse, e pian piano ci siamo creati un equilibrio. Siamo entrati nel ritmo locale: raccogliere anamnesi, compilare cartelle, fare esami obiettivi, prescrivere terapie, dividendoci i compiti in base alle reali capacità di ognuno, in modo che noi due studenti potessimo apprendere il più possibile.

Pian piano abbiamo intuito che il presidio ospedaliero più prossimo, fornito di maggiori strumentazioni, era spesso superficiale nella cura dei pazienti, che troppe volte tornavano senza aver effettuato gli accertamenti richiesti. Giorno dopo giorno abbiamo imparato a conoscere i nostri collaboratori ghanesi, che compongono l’intera equipe del Bmc: un amministratore, due farmacisti, qualche addetto al rudimentale laboratorio (malaria test e poco più: anche la macchina per l’emocromo, seppur presente, era rotta), un “medical assistant” che in assenza di medici volontari “manda avanti la baracca”, una manciata di ostetriche e degli infermieri molto versatili il cui ruolo era doppiamente indispensabile vista anche la loro funzione di interpreti dal locale Fante all’Inglese, una lingua parlata da una percentuale infima di pazienti.

Ognuno di loro, abitante di un mondo inizialmente così estraneo, a poco a poco è riuscito a conquistare la nostra fiducia, mentre noi lottavamo per ottenere la loro, fino a stringere in sole tre settimane veri e propri rapporti di amicizia e di collaborazione per lo stesso scopo comune di far funzionare nel miglior modo possibile quella piccola struttura sanitaria dispersa nel cuore del Ghana. Erano contenti di insegnarci e venivamo spesso convocati per diverse attività: fare un’intramuscolo, vedere un vetrino di malaria, assistere a un parto.

Talvolta l’ambulanza non ci portava in ambulatorio, ma dall’unica strada asfaltata che corre lungo tutta la costa del Ghana prendeva una svolta inaspettata, imboccando un sentiero di terra rossa e percorrendo qualche chilometro verso l’entroterra. Dopo poco compariva un villaggio e i bambini, come nei film, rincorrevano l’ambulanza urlando “Obruni! Obruni!”. L’”obruni”, l’«uomo bianco», è infatti una vera e propria attrazione nei villaggi più sperduti. Lo staff del Bmc lo sa bene, e usa la cosa a proprio vantaggio, attirando folle di mamme che altrimenti non porterebbero i propri numerosi figli alla visita mensile del programma “Outreach”, durante la quale gli infermieri e le ostetriche si radunano in una chiesa, una scuola o un semplice slargo (la prima volta abbiamo pesato bambini su una bilancia appesa a un albero) e richiamano tutti i bambini al di sotto dei cinque anni: controlli della crescita, vaccini e occasionalmente, quando portano con loro un medico obruni, visite alle decine di bambini di ogni nucleo familiare.

Alle due di pomeriggio, quando andava bene, o alle cinque quando andava male, finivamo stremati di visitare e andavamo finalmente a pranzo, per poi cenare poche ore dopo quando Victoria, in tipico orario Ghanese, ci presentava la piccantissima cena alle sette di sera. Nelle ore libere passeggiavamo per Cape Coast, la città più vicina, famosa storicamente per il Forte da cui partirono le navi negriere cariche di schiavi, oppure sceglievamo di stare a casa per un po’ di riposo o, talvolta, aprire l’Harrison e ripassare qualche nozione relativa alle patologie incontrate nella giornata.

Quei ventuno giorni sono stati i più formativi della mia vita da studentessa e tra i più formativi della mia vita. Ho appreso tanto di medicina e più ancora di mondo, ho ampliato i miei orizzonti ma individuato le mie passioni, sono tornata a casa con una gran voglia di imparare ancora tanto, per ritornare e fare ancora di più.

* 23 anni, di Roma, studentessa del quarto anno di Medicina e Chirurgia, sede di Roma