di Giordana Mattana *

Giordana Mattana, UgandaSarà pure un espediente, ma mi sento assolta dalle parole con cui Ryszard Kapuscinski, scomparso alcuni anni fa, apriva il suo “Ebano”: “È un continente troppo grande per poterlo descrivere. È un vero e proprio oceano, un pianeta a parte, un cosmo eterogeneo e ricchissimo. È solo per comodità, che lo chiamiamo Africa”.

Se il racconto che posso fare della mia esperienza in Uganda con il Charity Work Program appare disorganico e frammentario, posso appellarmi alle parole “rassicuranti” del grande giornalista polacco che ha viaggiato per più di quarant’anni nel continente nero.

Sono stata bombardata da stimoli di ogni tipo: acustici, visivi, uditivi, olfattivi e gustativi talmente diversi da quelli a cui ero abituata, ma soprattutto talmente eterogenei tra loro, da restarne frastornata. E se da una parte quello che ho vissuto è stato “troppo” per il suo dirompente carattere di novità, d’altra parte è “troppo poco” per avere un quadro completo ed esauriente della situazione che lì vi ho trovato: quello che ho sentito, visto, ascoltato, fatto è solo una minima parte di quello che avrei potuto sentire, vedere, ascoltare e fare.

Alla fine l’effetto di questo racconto è il medesimo di quello che possiamo ottenere se volessimo costruire un puzzle di 100 pezzi avendone a disposizione solo pochi: si può intuire quale sia il disegno di fondo, ma non si può avere un’immagine completa. Ci sono, tuttavia, dei “pezzi di Africa”, piccoli “sprazzi di bellezza” che mi sono portata dietro, che custodirò sempre e gelosamente e voglio condividere.

Primo fra tutti i “colori dell’Africa”. Siamo arrivati a Kampala di notte. il mattino dopo al risveglio, il primo messaggio inviato ai miei che aspettavano con ansia mie notizie è stato questo: “Terra rossa, terra rossa ovunque”. L’impatto visivo è indescrivibile. Quel colore rosso-brunastro, con le sue innumerevoli sfumature, crea una trama che avvolge l’intera città; trama interrotta solamente dalle grigie strade asfaltate senza marciapiedi laterali, costeggiate da scoli a cielo aperto, in cui si riversano fuoristrada, pulmini per il trasporto pubblico (matato) e moto-taxi (boda-boda).

La strada è il cuore della vita sociale ed economica: venditori di chapati e spiedini di carne; esercizi commerciali di vario tipo, pitturati con le insegne e i colori della coca-cola, della pepsi, della Mtn (la principale compagnia telefonica ugandese); donne che vendono ortaggi e frutta tipici del posto; mercati; bambini che giocano e che vedendoci, ci corrono dietro gridando «Mutzungu, Mutzungu (viso bianco)! Sweet!».

Indimenticabile è la sensazione che si prova nel ritrovarsi in un paese straniero, in cui sei tu il diverso e la tua presenza non passa mai inosservata: l’essere improvvisamente catapultati in una realtà contraddistinta da una cultura, un modo di vedere la vita, una storia talmente diversa dalla nostra è disorientante e avverti prepotente il tuo status alienante di straniero. Allo stesso tempo, sperimentare questa condizione sulla tua pelle ti dà una certa apertura mentale e un atteggiamento tollerante verso determinati comportamenti e modi di pensare, che di base tendi a non condividere, ma di cui riesci a comprendere le dinamiche.

La missione che ci ha ospitati, portata avanti da padre John, si trova nel distretto di Luzira, nella periferia della città. Qui l’antinomia è normalità: ville coloniali e baracche fatte di fango, all’interno delle quali l’aria è irrespirabile, estrema ricchezza e miseria, coesistono l’una accanto all’altra secondo uno strano, distorto equilibrio.

Lo scenario è totalmente opposto spostandosi dalla città e andando nei villaggi o nei parchi nazionali come quello delle Murchison Falls, il più vasto dell’Uganda. Qui tre colori si alternano orizzontalmente, il rosso della terra, il verde della savana, l’azzurro cristallino del cielo, combinandosi con il concetto di infinito. Ovunque mi giri, a trecentosessanta gradi, il mio occhio si perde attraverso una distesa di verde popolata da diversi tipi di animali, senza possibilità di intravederne la fine. Si respira un’aria quasi ancestrale, come se il tempo si fosse fermato a migliaia di anni fa. Si ha quasi la sensazione di poter ristabilire quel primitivo e troncato legame con la natura, che l’africano sembra ancora conservare insieme a un profondo senso di religiosità.

La sensazione che ancora oggi associo alla mia esperienza di tirocinio al Benedict Medical Center, l’ospedale della missione di padre John, è quel peculiare odore che avvertivo ogni mattina, quando iniziavamo il giro visite insieme al dottor Ocean. Sebbene il nostro centro fosse molto fornito e ben organizzato, di certo non vantava tutta quella serie di strumenti diagnostici che nei nostri ospedali rappresentano la normalità.

La medicina è sicuramente più essenziale. Tale impressione di essenzialità acquisisce carattere di evidenza quando con il dottor Damoi, chirurgo del Benedict, passiamo due notti nel pronto soccorso dell’ospedale pubblico di Kampala, Mulago: è un via vai continuo di gente con traumi, fratture, ferite profonde a seguito soprattutto di incidenti con i boda boda. Per immobilizzare le fratture ci ritroviamo a dover usare dei pezzi di cartone, che fissiamo con delle bende, e poi, terminate queste, con delle garze. Non c’è la lidocaina, l’anestetico locale: siamo costretti semplicemente a medicare, lì dove sarebbe necessario suturare.

Quando arriva un uomo con il quinto dito della mano quasi del tutto staccato, Damoi propone l’amputazione. L’uomo rifiuta e chiede che il dito gli venga rimesso a posto. Il chirurgo procede, sicuro che dopo il primo punto di sutura, avrebbe chiesto di smettere per via del forte dolore. Invece, con mia grande sorpresa, l’uomo resiste, punto dopo punto. Sopporta e lo fa fino alla fine. Non osavo immaginare la sofferenza. Avrei voluto fare di più per lui. Ma non potevo fare niente, solo dargli la mia acqua. Non dimenticherò quel volto.

Ma la mia esperienza in ospedale non si associa solamente a esperienze traumatiche: ho avuto la possibilità di assistere e collaborare al mio primo parto, insieme a Marilisa, studentessa di medicina anche lei. In quel momento un coacervo di emozioni contrastanti, un misto tra terrore e una gioia indescrivibile: le lacrime scendevano e non potevo trattenerle.

Un altro “pezzo d’Africa”, uno dei più importanti, è rappresentato dalle persone che ho incontrato, nell’ambito del rapporto medico-paziente, ma non solo. Da studentessa del quarto anno di medicina, con un ancora modesta esperienza di tirocinio in ospedale, spesso mi sono ritrovata nella situazione di chi riceve e impara dagli altri piuttosto che dare. Ma questo non mi ha impedito di vivere a pieno la relazione d’aiuto con il paziente: al di là del sapere tecnico, fondamentale per agire concretamente sulla malattia, la dimensione relazionale si esprime spesso in piccoli gesti che aiutano il paziente a non sentirsi solo di fronte alla sofferenza.

D’altra parte, l’africano si rapporta in maniera diversa alla figura del medico, verso la quale nutre una maggiore fiducia e un più profondo rispetto. C’è una minore tendenza a chiedere spiegazioni e a mettere in dubbio il giudizio del medico. Manifestare la propria riconoscenza per l’aiuto ricevuto è un tratto distintivo degli africani. Così un pomeriggio, durante una passeggiata per le strade di Kampala mi sento chiamare da una maestra che avevo incontrato qualche giorno prima in ospedale e che avevo cercato di aiutare: piangeva disperata, non avendo i soldi per pagare le cure. Riconoscendomi mi ferma per ringraziarmi, mi fa conoscere la sua famiglia, mi regala un cd con delle canzoni realizzate con i suoi alunni. Sebbene non fossi riuscita a far nulla di concreto per lei, aveva apprezzato la sincera volontà di aiutarla.

Le relazioni umane sono più autentiche, più sincere per qualche ragione e la gente ti dona tutto quello che può darti senza chiederti nulla in cambio. Come sister Corinne: una suora, dalle energie inesauribili, che opera a Gulu, nel nord dell’Uganda, dove gestisce diverse scuole. Pur conoscendoci appena ci ha offerto ospitalità nella sua missione, senza pensarci due volte.

Forse il pezzo d’Africa che simbolicamente racchiude tutti gli altri, è rappresentato dai neri occhi africani e dalla profondità del loro sguardo, dentro cui sembra riflettersi una comprensione olistica della vita, una saggezza d’altri tempi, la stessa che si può leggere nello sguardo dei nostri nonni. Sono occhi che riflettono la sofferenza di un popolo che ha vissuto i soprusi dei diversi dittatori che si sono succeduti dopo l’indipendenza e l’orrore della guerre civili, il cui ricordo è ancora troppo vivido, troppo fortemente impresso nella mente degli ugandesi.

Susan è una ragazza rimasta orfana di padre e madre a causa della guerra. Appartiene alla tribù degli Acholi, originaria del nord dell’Uganda, una delle più colpite dal cruento regime del dittatore Amin e dalle guerre civili. Nel suo sguardo si legge l’orgoglioso senso di appartenenza a un popolo dall’identità culturale, sociale e storica frammentata: da qui l’esigenza di scrivere un libro che aiuti il suo popolo a ricomporre tale identità.

Sono occhi che trasmettono serenità nell’affrontare le difficoltà di ogni giorno, nel vivere la quotidianità. L’africano è un uomo paziente, flemmatico, non c’è traccia in lui di quella frenesia, di quell’ansia che caratterizza l’uomo occidentale. Ciò è in parte al suo modo di relazionarsi al concetto di tempo: l’occidentale è schiavo del tempo. Per lui è una categoria ben definita e ne scandisce in maniera rigida l’intera giornata. Per l’africano il tempo è un prodotto dell’uomo, modellabile secondo le sue esigenze e sotto il suo pieno controllo (sebbene possa capitare che un “arrivo tra due minuti” si trasformi in un attesa di ore).

E infine lo sguardo dei bambini dell’orfanotrofio St. Jude, a Gulu. Lo sguardo di chi sa essere veramente felice con poco: un foglio e una penna, un bracciale, delle caramelle. Lo sguardo di chi sente l’esigenza del contatto umano, di un abbraccio: in quell’istante il divario emotivo tra chi ha necessità di sentirsi amato e di chi può in parte colmare questo vuoto, viene meno e i due ruoli non sono più nettamente separati; come per un “principio di indeterminazione Heisenberghiana”, non puoi più definire al contempo chi sia l’uno e chi sia l’altro.

Un bambino chiede di poter usare la mia macchina fotografica. Rivedere le foto che aveva scattato è stato commovente. Ed è proprio con una di queste che vorrei concludere il mio racconto, non solo perché la trovo particolarmente bella, ma perché ogni volta che la riguardo, è come se tutti i ricordi di ciò che ho vissuto mi scorressero avanti, come se questa foto in particolare racchiudesse in sé l’intera esperienza, ma soprattutto perché questa foto ha una storia e un fotografo d’eccezione: immagino il sorriso di un bambino, che guardando nell’obiettivo della mia macchina fotografica, ferma il tempo in uno scatto di straordinaria bellezza, imprimendo in essa la sua profonda sensibilità, il suo sguardo verso il mondo.

Questi sono gli sprazzi di bellezza, incostanti, ma autentici e non ti puoi sbagliare quando li vedi, quando li vivi. Li riconosci subito. Perché? Perché sono in grado di ridefinirti e di cambiarti la vita.

* 23 anni, di Raffadali, quarto anno del corso di laurea in Medicina e chirurgia, facoltà di Medicina e chirurgia, sede di Roma