Sono figure distanti più di due millenni, sono tra loro diversissime, eppure le loro voci coincidono su un punto. Da un lato, Platone nella Repubblica dichiara: «L'impronta iniziale che uno riceve dall'educazione (paideia) segna anche tutta la sua condotta successiva» (IV, 425b). D'altro lato, nell'autobiografico I miei ricordi (1867), Massimo D'Azeglio afferma che «tutti siamo d'una stoffa nella quale la prima piega non scompare mai più». Si assegna dunque un rilievo oggettivo alla prima formazione, quell'incipit pedagogico che si consuma nella famiglia, nella comunità ecclesiale, nella scuola, in particolare nell'università. Consapevole di questo primato, la cultura greca classica ha riservato uno spazio capitale alla paideia, come dimostrato dal famoso saggio, titolato appunto Paideia, che Werner Jaeger pubblicò nel 1934.

Nella classicità si confrontavano essenzialmente due modelli. Quello di Isocrate (436-338 a.C.) puntava soprattutto sull'eloquenza della comunicazione, sul metodo, sulla retorica, così che il discepolo diventasse maestro nel comunicare sapientemente e nel reggere la vita familiare e politica. Platone (427-347 a.C.), soprattutto nel libro VII della Repubblica, sosteneva maggiormente l'importanza del contenuto e quindi della definizione di un corpus educativo generale, di una fondazione e formazione integrale, di una "filosofi a" nel senso etimologico del termine, capace di individuare e discernere il bene e il male, il vero e il falso. Questa divaricazione di modelli può e dev'essere superata, ed è, comunque, stata costantemente sotto l'attenzione della riflessione pedagogica.

Educazione e comunicazione si devono, quindi, intrecciare, altrimenti si assiste a una degenerazione di cui siamo spesso testimoni ai nostri giorni ove alla bulimia delle tecniche "informatiche" corrisponde un'anoressia di contenuti formativi. È quello che già faceva notare nei suoi Saggi Montaigne: «De vrai, le soin e la dépense de nospères ne visent qu'à nous meubler la tête de science; du jugement et de la vertu, peu de nouvelles» (I,25), ossia la preoccupazione principale e l'investimento degli educatori mira solo ad arredare la testa di conoscenze; si ignorano tranquillamente la capacità di giudizio e la virtù. Per questo, concludeva il filosofo, è necessario «plutôt la tête bien faite que bien pleine», modellare il pensare più che colmare il cervello di dati e di modi espressivi. È il «travailler à bien penser», l'impegnarsi a pensare bene, con rigore e sostanza, che Pascal nei suoi Pensieri considerava come «il principio della morale» (n. 347 ed. Brunschvicg).

Il contrappunto armonico tra contenuto e comunicazione, la loro coesistenza e l'incrocio necessario non è solo postulato dall'ormai abusato (fino allo stereotipo) assioma di McLuhan secondo il quale (anche) il mezzo è (il) messaggio, per cui, come egli ironizzava in uno dei saggi della Sposa meccanica (1951), «i modelli di eloquenza non sono più i classici, ma le agenzie pubblicitarie» che riescono a plasmare talmente il messaggio che «la moderna Cappuccetto Rosso non avrebbe nulla in contrario a lasciarsi oggi mangiare dal lupo». Ma si è andati anche oltre. Infatti il segno più rilevante del mutamento in corso riguardo agli equilibri tra contenuto e comunicazione - mutamento che il sociologo americano John Perry Barlow ha comparato alla scoperta del fuoco - è nel fatto che ora la comunicazione non è più un medium simile a una protesi che aumenta la funzionalità dei nostri sensi permettendoci di vedere o di sentire più lontano, ma è divenuto un "ambiente" totale, globale, collettivo, un'atmosfera che non si può non respirare, neanche da parte di chi si illude snobisticamente di sottrarvisi.

Si delinea, così, nell'odierna comunicazione non più un'"estensione di noi stessi", come intendeva McLuhan (The Extension of Man era il sottotitolo del suo saggio Understanding Media del 1964), bensì il trapasso a una nuova "condizione umana", a un inedito modello antropologico i cui tratti sono comandati da questa realtà onnicomprensiva.

Anche Galileo con il telescopio credeva solo di "estendere" le capacità visive, ma alla fine creò una rivoluzione non solo cosmologica, ma anche epistemologica e antropologica, per la quale l'uomo non era più il centro dell'universo (la "rivoluzione copernicana"). Siamo, quindi, immersi in un "creato" differente rispetto al "creato" primordiale. In esso ci sono già molti nuovi cittadini a titolo pieno, quelli che a partire dal 2001 con Mark Prensky sono chiamati digital natives, rispetto a quelli della precedente generazione che al massimo possono aspirare a essere "migranti digitali", incapaci - come accade appunto agli immigrati - di perdere l'antico accento. Rimane, comunque, sempre più difficile adottare il rigetto apocalittico, ma bisogna anche essere sensibili e criticamente sorvegliati, così da non diventare integrati totali, per usare l'ormai famosa antitesi del testo Apocalittici e integrati di Umberto Eco (1964).

Agli apocalittici, ad esempio, appartiene un po' Karl Popper con la sua stentorea battaglia contro lo strapotere televisivo, i cui asserti sono per altro adattabili e aggiornabili anche all'impero informatico virtuale: spirito critico in sonno, democrazia trasformata in telecrazia, perversione del senso etico, estetico e veritativo. Collocati come siamo in simili coordinate culturali, l'educatore deve educere e sceverare grano e zizzania, senza però cadere nella tentazione dello strappo radicale, apocalittico appunto, fondamentalista e isolazionista. "Insegnare" è offrire dei "segni" indicatori di percorsi da imboccare e di sentieri da evitare. È ciò che vorrei ora fare in modo molto semplificato ed emblematico attraverso una trilogia di componenti negative, prima di lasciare spazio a un convinto appello a non sottrarsi, bensì a entrare in quell'orizzonte, tenendo ben stretto il nucleo duro del messaggio genuino della fede cristiana, ma modulandolo sulle nuove lunghezze d'onda, che si sviluppano attorno alle parabole, sì, ma mediatiche. Iniziamo, dunque, con tre segnali di pericolo. Anche san Paolo, che fu l'artefice di una nuova coniugazione del Credo cristiano secondo i canoni della comunicazione greco-romana, non esitava a criticare aspramente «quei molti che fanno mercato della parola di Dio» adulterandola (2Cor 2,17).

Alcuni vizi della comunicazione

Una prima riserva riguarda la moltiplicazione sconfinata dei dati offerti. Essa può indurre a un relativismo agnostico, a una sorta di anarchia intellettuale e morale, a una flessione dello spirito critico e della capacità di vaglio selettivo. Entrano così in crisi le grandi agenzie di comunicazione del passato come la Chiesa, la scuola e lo Stato. Risultano sconvolte le gerarchie dei valori, si disperdono le costellazioni delle verità ridotte a un gioco di opinioni variabili nell'immenso paniere delle informazioni. Si attua in modo inatteso quel principio che il filosofo Thomas Hobbes aveva formulato nel suo celebre Leviathan (1651): «Auctoritas non veritas facit legem», è l'autorità potente e dominante che determina le idee, il pensiero, le scelte, il comportamento, e non la verità in sé, oggettiva. La nuova autorità è appunto quella dell'opinione pubblica prevalente, che ottiene più spazio e ha più efficacia all'interno di quella massa enorme di dati offerti dalla comunicazione informatica.

Una seconda nota critica punta alla degenerazione sottesa a una componente di per sé positiva (d'altronde, i vizi sono spesso virtù degenerate). Sotto l'apparente "democratizzazione" della comunicazione, sotto la deregulation imposta dalla globalizzazione informatica, che sembrerebbe essere principio di pluralismo, sotto la stessa molteplicità contenutistica precedentemente segnalata, si cela in realtà un'operazione di omologazione e di controllo. Non per nulla le gestioni delle reti sono sempre più affidate alle mani di magnati o di mega-corporation che riescono sottilmente e sapientemente a orientare, a sagomare, a plasmare a proprio uso (e a uso del loro mercato e dei loro interessi) contenuti e dati, creando quindi nuovi modelli di comportamento e di pensiero. Si assiste, così, a quella che è stata chiamata un po' rudemente "una lobotomia sociale" che asporta alcuni valori consolidati per sostituirli con altri spesso artificiosi e alternativi. Curiosamente, già lo storico francese Alexis de Tocqueville nella sua opera La democrazia in America (1835-1840) aveva previsto per il futuro della società americana un sistema nel quale «il cittadino esce un momento dalla dipendenza per eleggere il padrone e subito vi rientra». Profilo che, per certi versi, s'adatta all'attuale società informatica.

Un'ultima osservazione critica riguarda l'accelerazione e la moltiplicazione dei contatti, ma anche la loro riduzione alla "virtualità". Si piomba in una comunicazione "fredda" e solitaria che esplode in forme di esasperazione e di perversione. Si ha, da un lato, l'intimità svenduta della chat line o, per stare nell'ambito televisivo, quella di programmi del genere Il grande fratello; si ha la violazione della coscienza soggettiva, dell'interiorità, della sfera personale. D'altro lato, si ottiene come risultato una più forte solitudine, un'incomprensione di fondo, una serie di equivoci, una fragilità nella propria identità, una perdita di dignità. È stato osservato dal citato Barlow che non appena i computer si sono moltiplicati e le antenne paraboliche sono fiorite sui tetti, la gente si è chiusa nelle case e ha abbassato le serrande. Paradossalmente, l'effetto dello spostarsi verso la realtà virtuale e verso mondi mediatici è stato quello della separazione gli uni dagli altri e della morte del dialogo vivo e diretto nel "villaggio".

La critica e l'impegno

Di fronte a questo orizzonte così problematico, forte può essere la tentazione dello scoraggiamento e dell'atteggiamento rassegnato o dimissionario, nella convinzione dell'inarrestabilità di un simile processo destinato a creare un nuovo standard umano. Non è raro il caso di chi si rinchiude nel suo piccolo mondo antico, accontentandosi di seguire le regole del passato, deprecando le degenerazioni dell'era presente. A livello ecclesiale non mancano fenomeni di rigetto e di ricorso ai tradizionali canali di comunicazione, collaudati per una società agricola o paleo-industriale o proto-urbana. Tuttavia, il filosofo e sociologo francese Edgar Morin - pur osservando che i nuovi mezzi sorti per distinguere la realtà dalla manipolazione e la verità dalla menzogna, come la fotografi a, il cinema e la televisione, sono stati usati in molti casi proprio per favorire l'illusione, la manipolazione e la menzogna - ha dimostrato con molti altri studiosi di questi fenomeni come la nuova comunicazione possa, in ultima analisi, generare una realtà più ricca e complessa, persino più feconda anche umanamente.

Il realismo della conoscenza e della critica non giustifica, allora, il pessimismo dell'impegno. E questo vale maggiormente per il credente e per il pastore. Le sfide sono forti, rischiose e pericolose, ma proprio per questo esigono fiducia e coraggio, nella consapevolezza che il cuore della fede è nella Rivelazione, ossia nella comunicazione divina che spezza il silenzio ineffabile della trascendenza e si apre all'umanità. È un dialogo che - nel cristianesimo - vede in azione il Figlio stesso di Dio, dopo la voce dei profeti e dei sapienti di Israele: «Dio nessuno mai l'ha visto: proprio il Figlio unigenito che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18). Una comunicazione che prosegue oralmente attraverso gli apostoli e che diventa scritta fin dai primi secoli.

Se risaliamo al Concilio Vaticano II, poi, troviamo l'appello a riconoscere che gli strumenti della comunicazione sociale «contribuiscono mirabilmente a sollevare e ad arricchire lo spirito e a diffondere e a consolidare il Regno di Dio» (Inter mirifi ca n. 2). Paolo VI nell'esortazione apostolica Evangelii nuntiandi del 1975, segnalando le esitazioni che avevano causato una «rottura tra Vangelo e cultura» (n. 20), uno iato dai risvolti molteplici non solo comunicativi, ma anche artistici, musicali, sociali e culturali in senso generale, non esitava ad ammonire che «la Chiesa si sentirebbe colpevole di fronte al Signore se non adoperasse questi potenti mezzi» (n. 45). È sorprendente notare come il linguaggio  tecnico dei computer si sia curiosamente avvicinato a quello teologico mutuandone alcuni termini come, ad esempio, icona, salvare, convertire, giustificare: vocaboli che appartengono alla stessa Sacra Scrittura, apparentemente così remota cronologicamente e ideologicamente.

È in questa linea che si è giunti al punto di parlare persino di una "cyberteologia", della quale si hanno già vere e proprie analisi sistematiche, come quella proposta nel 2006 dall'americana Susan George (Religion and Technology in the 21st Century) il cui sottotitolo è emblematico, Faith in the e-World. La fede si insedia, quindi, nel mondo cyber (prefisso disceso dal termine "cibernetica", la cui matrice greca evoca un "governo" della realtà, dell'azione e del pensiero) con una serie di contenuti significativi, anche se non sempre impeccabili. Cyberteologia è, però, anche la riflessione teologica e pastorale sulla stessa comunicazione nei tempi di internet e sulle modalità con cui innestarvi l'annunzio evangelico. Alla base c'è la convinzione che la rete sia un "dominio" dotato di grandi potenzialità spirituali: è in questa luce che il gesuita Antonio Spadaro, attuale direttore della «Civiltà Cattolica», ha creato un sito specifico intitolato appunto www.cyberteologia.it, pubblicando anche il saggio Cyberteologia (2012). Non sono pochi gli ecclesiastici che esercitano sistematicamente in rete una particolare (ma non esclusiva) forma del loro ministero ed è significativo che in molte Università Pontificie o cattoliche siano in attività Facoltà o Istituti dedicati esplicitamente alla formazione di operatori ecclesiali nell'ambito della comunicazione sociale.

Custodire l'identità

Ritorniamo a quella categoria della cultura greca da cui siamo partiti, la paideia. Essa cerca di tenere intrecciati tra loro messaggio e comunicazione ed è da tale unione che nasce l'educazione della persona. Per questo, paideia è in pratica la cultura, l'humanitas latina. Ebbene, se il concetto fa parte dell'annunzio cristiano - che è un comunicare in modo limpido, attualizzato, incisivo il "deposito" della fede così da far fluire insieme parádosis e parathéke - il termine in senso stretto è raro nel Nuovo Testamento. Ricorre, infatti, solo sei volte. Ad assorbire quattro occorrenze è la Lettera agli Ebrei in un unico brano parenetico (12,4-11) che si sviluppa attorno a una citazione del libro dei Proverbi (3,11-12). Il tema è un tópos della letteratura sapienziale ed esalta la funzione catartica della correzione divina, attraverso un processo pedagogico condotto dalla figura del padre, il cui esito non è la punizione fine a se stessa, bensì «un frutto di pace e di giustizia», perché «Dio lo fa per il nostro bene, allo scopo di farci partecipi della sua santità».

In questa stessa traiettoria educativa e correttiva si muove anche il quinto testo nel quale occhieggia il termine paideia. Nel codice o tavola dei doveri domestici del capitolo 6 della Lettera agli Efesini si allega una nota di umanità nell'educazione dei figli: «Voi, padri, non esasperate i vostri figli, ma fateli crescere nella paideia [che è, quindi, educazione etica e disciplina] e nell'insegnamento del Signore» (6,4). Proprio nella linea della nouthesía, l'"insegnamento", la formazione della mente e quindi delle scelte del cristiano si colloca l'ultima e la più rilevante occorrenza neotestamentaria della paideia. Siamo, infatti, all'interno di uno dei passi fondamentali per una teologia della Scrittura (genitivo oggettivo), cioè per una definizione della qualità e della funzione della Bibbia. Qui vediamo illuminarsi la triade che ha retto il nostro discorso: fede, comunicazione, educazione. Cerchiamo di analizzare l'asserto paolino: «Tutta la Scrittura è theópneustos [ispirata da Dio]. È pure utile per la didaskalía [l'insegnamento]; per l'elegmós [la persuasione, la convinzione]; per l'epanórthosis [il raddrizzare, la correzione]; per la paideia nella giustizia» (2Tim 3,16).

Lo spettro delle applicazioni intellettuali, esistenziali e morali della Parola di Dio è ben calibrato secondo l'arco intero dell'educazione e formazione dell'uomo e del credente perfetto. L'aspetto informativo (la didaskalía) che è alla radice della fi des quae si incrocia con la persuasione (elegmós), che genera l'adesione alla Parola, in pratica la fides qua. Ne deriva l'impegno morale nel suo profi lo negativo di lotta al peccato e al male, abbandonando le deviazioni, cioè le perversioni nelle scelte etiche (l'epanórthosis). Ma l'apice è appunto la paideia, categoria positiva che genera l'uomo giusto, l'autentico credente. Per raggiungere questa meta che la Scrittura «ispirata da Dio» mostra e invita a dimostrare nella testimonianza di vita, è necessaria una comunicazione incisiva e decisiva.

È ciò che l'Apostolo consiglia al discepolo Timoteo, quasi come in un testamento, ed è quello che lui stesso ha compiuto durante la sua predicazione e missione. Questo impegno ricade anche su di noi che ci troviamo inseriti in un nuovo quadro socio-culturale. Tentiamo, a suggello della nostra riflessione essenziale, di suggerire alcune piste di attenzione per rendere l'evangelizzazione più trasparente ed efficace così che la Parola di Dio "si dissemini", come era accaduto nell'opera kerygmatica della Chiesa degli Atti degli apostoli. Indicheremo tre percorsi.

Il primo è quello dell'identità da custodire, senza cadute in facili concordismi o sincretismi, depotenziando la fede cristiana del suo carattere di "scandalo" (1Cor 1,23), di paradosso, persino di apparente "inattualità" proprio a causa della sua validità permanente e oggettiva che non s'adatta a mode, anche a costo di creare contrasto e rigetto, come insegna l'esperienza paolina dell'Areopago (At 17,32). A questo proposito è rilevante proprio l'esperienza di quel grande comunicatore che è stato l'Apostolo, consapevole a più riprese delle deviazioni dottrinali che si ramificavano nelle sue comunità «turbando e sovvertendo» (Gal 1,7), «provocando divisioni e ostacoli contro l'insegnamento appreso» (Rm 16,17), «incantando gli stolti» cristiani della Galazia (Gal 3,1).

Il fascino della stravaganza e dell'eccesso attirava già allora, tant'è vero che Paolo polemizza con alcune comunità cristiane nelle quali «ci si circonda di maestri secondo i propri capricci, rifiutando di dare ascolto alla verità per perdersi dietro alle favole» (2Tim 4,3-4). Anzi, la forza "performativa" della comunicazione - soprattutto nei confronti delle persone più indifese - è rappresentata senza reticenze nel suo versante negativo all'interno della stessa lettera indirizzata al collaboratore Timoteo: «Vi sono alcuni che entrano nelle case e circuiscono certe donnette cariche di peccati e in balìa di passioni di ogni genere, sempre pronte a imparare, ma che non riescono mai a giungere alla conoscenza della verità» (3,6-7).

In quel contesto di comunicazione viziata, già allora non si esitava ad adottare la pura e semplice falsificazione a livello di massa: nella comunità cristiana di Tessalonica circolavano persino - dice l'Apostolo - «alcune lettere fatte passare come nostre», tali da «confondere la mente e allarmare» (2Ts 2,2), tant'è vero che Paolo si vedrà costretto ad apporre ai suoi scritti - dettati, com'era prassi, a uno scriba - una specie di autenticazione: «Il saluto è di mia mano, di Paolo. Questo è il segno autografo di ogni mia lettera; io scrivo così» (2Ts 3,17); «vedete con che grossi caratteri vi scrivo di mia mano» (Gal 6,11). L'"adulterazione" del messaggio secondo forme ingannevoli era una vera e propria piaga che attecchiva in varie Chiese delle origini (2Cor 4,2). Il monito è, perciò, costante: «Fate attenzione che nessuno faccia di voi sua preda con la filosofi a e con vuoti raggiri. [...]. Nessuno vi inganni con parole vuote» (Col 2,8; Ef 5,6). La comunicazione malata, le incomprensioni e le degenerazioni dell'autentica dottrina sono, quindi, un dato permanente e fin scontato non solo nel confronto con l'esterno, ma anche all'interno stesso della Chiesa.

Sulla comunicazione ecclesiale

Una seconda osservazione riguarda, in contrappunto, la capacità di comunicare quel messaggio autentico e identitario della fede cristiana. Nel suo primo dialogo con il filosofo Jean Guitton, Giovanni Battista Montini annotava: «Bisogna essere antichi e moderni, parlare secondo la tradizione, ma anche conformemente alla nostra sensibilità. Cosa serve dire quello che è vero, se gli uomini del nostro tempo non ci capiscono?». Ecco, allora, l'esigenza di possedere una conoscenza rigorosa delle tecniche comunicative, abbandonando l'approssimazione, l'improvvisazione e la faciloneria. La nuova comunicazione si è ormai dotata di una sua grammatica, di una sintassi e di una stilistica che non possono essere ignorate. Si delinea, così, la necessità di un linguaggio che, senza perdere la sua matrice, si modelli secondo nuovi percorsi retorici e oratori.

È proprio questo il punctum dolens nell'attuale comunicazione esterna ecclesiale. Anzi, lo è già a livello intra-ecclesiale. Basti pensare allo scarto talora eccessivo tra il linguaggio dei documenti pastorali e la comprensione dei fedeli. Oppure si pensi alla spinosa questione dell'omelia, che un famoso critico e osservatore attento dei fenomeni culturali come Carlo Bo definiva «tormento dei fedeli» e non certo nel senso della capacità di inquietare le coscienze... Certo, è arduo coinvolgere il pubblico eterogeneo delle assemblee liturgiche domenicali, e per di più abituato ai ritmi scattanti dell'odierna comunicazione. Dopo tutto anche Paolo, parlando troppo a lungo, riuscì ad addormentare e a far cadere dal terzo piano il ragazzo Eutico a Troade (At 20,7-12), mentre secoli dopo, nel Settecento, il celebre autore dei Viaggi di Gulliver, Jonathan Swift, che fu anche parroco anglicano, scriveva un saggio ironico sul come far addormentare i fedeli durante un sermone pomeridiano.

Un primo segno del rispetto e dell'amore per l'altro - la vera comunicazione è un atto di comunione e, quindi, di carità - è la capacità di trasparenza, evitando la prevaricazione dell'oscurità esoterica e oracolare, che è arroganza e disprezzo nei confronti dell'altro. Già Quintiliano (I secolo d.C.), il maestro della retorica classica, nel suo De institutione oratoria, limpidamente osservava: «Prima est eloquentiae virtus perspicuitas», la prima dote dell'eloquenza è la chiarezza, la comprensibilità. È, questo, uno dei limiti più frequenti dell'annunzio cristiano nell'"areopago" della società moderna: il ricorso all'"ecclesialese", l'appello al gergo, l'incapacità di esprimersi evitando tecnicismi (kérygma, escatologia, kénosis, koinonía, diaconia, mistagogia, pericope, pneumatico...) o anche enfasi o rigidità stilistiche ne sono la testimonianza più evidente.

La chiarezza e la semplicità sono paradossalmente più impegnative del linguaggio sofisticato ed esoterico. Sappiamo, poi, che la comunicazione informatica ha prodotto un'estenuazione dell'uso delle subordinate: il minimalismo di Twitter con i suoi 140 caratteri ne è una prova evidente. Il pensiero certamente si semplifica, ma diventa più incisivo. Certo, non si dovrà mai abbandonare l'approfondimento ove impera appunto la subordinata, ossia l'articolazione del pensiero, ma bisognerà anche essere in grado di comunicare il kerygma con la stessa essenzialità di Cristo che nel suo primo intervento pubblico è ricorso a una sorta di tweet essenziale: «Il tempo è compiuto, il regno di Dio si è fatto vicino. Convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1,15), in greco 8 parole in tutto e qui in italiano neppure 90 caratteri!

Ecco, allora, la dote dell'incisività che esorcizza la noiosità verbosa, antico vizio dell'eloquenza sacra che Voltaire con malizia comparava alla spada di Carlo Magno: è lunga e piatta. Montesquieu nelle sue Lettere persiane accusava: «Quel che manca loro in profondità, gli oratori lo compensano in lunghezza». Ma già tra i detti e gli apoftegmi dei Padri del deserto, che sono un modello di comunicazione icastica, ce n'è uno sferzante di abbà Sisoes dedicato ai teologi della scuola di Alessandria d'Egitto: «Se Dio avesse incaricato i teologi di scrivere il Decalogo, invece di dieci comandamenti, ne avremmo avuti mille!». Ed è curioso notare che Cristo riduce i 613 precetti elaborati dalla tradizione rabbinica a due soltanto, che sono poi il solo comando dell'amore (Mt 22,34-40). Come si è visto, Gesù è un modello di incisività nella comunicazione attraverso il suo ricorso all'efficacia dei simboli delle sue parabole. È così che si attua, in senso positivo e non alienante, l'opera di "sedurre" l'ascoltatore, ossia di secum ducere, di condurlo con noi stessi su percorsi nuovi e più alti.

Un terzo e ultimo percorso comunicativo è quello dell'ascolto attento, sorgente primaria per un "dialogo" che sia veramente tale, cioè l'incontro (diá-) di due logoi, di due concezioni serie anche se differenti e fin divergenti. Non per nulla nella Bibbia l'"ascoltare" è il verbo della fede e significa confronto, con Dio, con se stessi e con il prossimo. Ma c'è di più. L'ascoltare dovrebbe precedere il parlare. La preparazione, l'apprendistato, l'esercizio sono le condizioni per ogni attività professionale. Così, prima di accedere agli schermi televisivi, prima di elaborare un articolo, prima di allestire un sito o comporre un messaggio, è necessario avere un'attrezzatura culturale, è importante capire i meccanismi della comunicazione, è indispensabile "ascoltare" nel senso pieno del termine. Questa legge deve valere, nella comunicazione, anche in un altro senso. Dietrich Bonhoeffer affermava che «l'inizio dell'amore per il prossimo sta nell'imparare ad ascoltare le sue ragioni». Purtroppo, nei dibattiti televisivi o in quelli pubblici e persino in Twitter e nei blog che di loro natura presuppongono un dialogo in rete, questa norma è del tutto disattesa e dà origine solo a confusione, a sovrapposizione di voci, a violenze verbali.

La polemica può essere anche il sale del confronto, ma guai - soprattutto per l'uomo di Chiesa o il cristiano - a eccedere. Il noto romanziere cattolico scozzese Bruce Marshall, morto nel 1979, aveva coniato queste tre formule per il dialogo tra persone caratterizzate da diversità culturali o religiose: «Ascoltare quello che dice l'altro. Ascoltare tutto quello che dice l'altro. Ascoltare prima quello che dice l'altro».

L'umile fierezza delle proprie convinzioni non deve mai trasformarsi in prevaricazione, ma in confronto sereno, nel rispetto e nell'ascolto delle altrui convinzioni per poterle poi eventualmente discutere. La paura nei confronti dei new media, infatti, può generare atteggiamenti antitetici di timidezza e reticenza oppure di arroganza e permalosità. Entrambe sono negazione del vero ascolto dell'altro.

Questo ascolto vero suppone anche una componente che ai nostri giorni è sempre più rara, fino a risultare persino controcorrente. La parola autentica e incisiva, in verità, nasce dal silenzio, ossia dalla riflessione e dall'interiorità, e per il fedele dalla preghiera e dalla meditazione. In mezzo al brusio incessante della comunicazione informatica, alla chiacchiera e all'immaginario televisivo e giornalistico, al rumore assordante della pubblicità, il cristiano (ma non solo) deve sempre saper ritagliareuno spazio di silenzio "bianco" che sia - come accade a questo colore che è la sintesi dello spettro cromatico - la somma di parole profonde, e che non è mero silenzio "nero", cioè assenza di suono. Il Dio dell'Horeb si svela a Elia non nelle folgori, nel vento tempestoso e nel terremoto bensì in una qol demamah daqqah, in «una voce di silenzio sottile» (1Re 19,12). Anche la saggezza greca pitagorica ammoniva che «il sapiente non rompe il silenzio se non per dire qualcosa di più importante del silenzio». È solo per questa via che sboccia la parola sensata. Solo così si compie la scelta di campo sottesa a un famoso detto rabbinico: «Lo stupido dice quello che sa; il sapiente sa quello che dice».