Sono passati cinque anni dalla sua morte. Derrida ha scritto più di cinquanta volumi, centinaia di articoli, ha concesso molte interviste, è stato il soggetto di alcuni film e addirittura di un fumetto, è spesso intervenuto all'interno nel dibattito politico, si è trovato al centro di polemiche filosofiche e più in generale culturali sempre vivaci, e talvolta perfino feroci. La riflessione derridiana ha dato prova di una vivacità per certi aspetti senza pari all'interno del dibattito filosofico del dopoguerra; tale vivacità si è manifestata soprattutto nella capacità del filosofo francese di percorrere strade inusitate, di sollevare interrogativi del tutto nuovi, di leggere i testi della tradizione (lo ripeto: testi filosofici, poetici, letterari, psicoanalitici, ecc.) secondo prospettive mai praticate prima, arrivando perfino ad inventare concetti e termini nuovi.

In estrema sintesi, a me sembra che si debba considerare l'opera di Derrida come un'infaticabile e appassionata interrogazione sull'eventualità dell'evento, o forse meglio come un'approfondita indagine sulle condizioni di possibilità (che non a caso il filosofo francese determina ultimamente come «condizioni di impossibilità») di un pensiero dell'evento in quanto evento (cioè di quanto appare indeducibile, non programmabile, imprevedibile, nuovo: talmente imprevedibile e nuovo da dover essere inteso, afferma Derrida, come rigorosamente im-possibile). In tal senso a me sembra che si possa legittimamente sostenere che la riflessione derridiana si è imposta negli anni sempre più chiaramente come un pensiero all'interno del quale il riconoscimento di «una complicazione originaria dell'origine, di una contaminazione iniziale del semplice, di uno scarto inaugurale che nessuna analisi potrebbe presentare» (se si vuole, è il tema della differenza) si è trovato essenzialmente connesso – e così abitato, fecondato, rilanciato – con l'urgenza di pensare e salvaguardare uno spazio (senza dubbio di pensiero, ma anche etico-politico, uno spazio istituzionale) affinché un evento, se e quando avviene, possa ancora avvenire.  In ultima istanza, ecco le grandi questioni istruite dalla riflessione di Derrida  che ho cercato di chiarire proprio seguendo l'articolazione di pensiero che questa stessa riflessione propone: quali sono le conseguenze (filosofiche, politiche, etiche, sociologiche, ecc.) che un termine/concetto come quello di «evento» impone di trarre? O anche: che cosa significa e come è possibile essere rigorosi con un termine/concetto come quello di «evento»? O ancora più radicalmente: come il modo d'essere dell'evento obbliga a ripensare la natura stessa del logos e la forma di razionalità ad essa adeguata?

* docente di Filosofia della comunicazione all’Università Cattolica di Milano