Rapporto Osservasalute 2013Resiste ancora, nonostante la crisi economica che ostacola prevenzione, accesso alle cure e alla diagnosi precoce, la salute degli italiani, confermando almeno per quest’anno il paradosso nazionale: gli italiani, infatti, guadagnano aspettativa di vita soprattutto grazie alla ridotta mortalità per malattie del sistema circolatorio e per i tumori, trend che si deve sia agli investimenti fatti negli anni passati nelle politiche di prevenzione, sia agli avanzamenti diagnostici e terapeutici. Si intravede anche qualche timido segnale di miglioramento negli stili di vita, almeno sul fronte dei consumi di alcolici e nel vizio del fumo, ma è ancora desolante e anzi in peggioramento la forma fisica dei cittadini, sempre più grassi; aumentano soprattutto gli obesi e non fanno eccezione i bambini. Non cambia neppure la tendenza alla scarsa attività fisica, aggravata probabilmente anche dalle difficoltà “crisi-indotte” degli italiani di praticare sport in modo costante.

Su questa situazione già precaria rischia di incunearsi anche il quadro economico, per nulla roseo, in cui versa il Paese. La spending review, infatti, rischia di far saltare il Servizio sanitario nazionale (Ssn), determinando difficoltà nel breve e nel lungo termine, sia a causa di una riduzione dei servizi di salute offerti alla popolazione, specie a quella meno garantita e con minori disponibilità per curarsi ricorrendo al privato, sia a causa di un aumento della spesa sanitaria sul lungo periodo, aumento determinato dall’effetto boomerang della riduzione degli investimenti in politiche di prevenzione e diagnosi precoce. I risparmi obbligati di oggi rischiano di moltiplicare la spesa nel giro dei prossimi anni.

È questa in estrema sintesi la situazione che emerge dalla undicesima edizione del Rapporto Osservasalute (2013), un'approfondita analisi dello stato di salute della popolazione e della qualità dell'assistenza sanitaria nelle Regioni italiane presentata oggi in Università Cattolica a Roma. Pubblicato dall'Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni italiane, che ha sede presso l'Università Cattolica di Roma, è coordinato dal professor Walter Ricciardi, direttore del dipartimento di Sanità pubblica dell’ateneo - Policlinico Gemelli di Roma, e da Alessandro Solipaca, segretario scientifico dell’Osservatorio. Il Rapporto è frutto del lavoro di 165 esperti di sanità pubblica, clinici, demografi, epidemiologi, matematici, statistici ed economisti, distribuiti su tutto il territorio italiano, che operano presso Università e numerose istituzioni pubbliche nazionali, regionali e aziendali (ministero della Salute, Istat, Istituto Superiore di Sanità, Consiglio Nazionale delle Ricerche, Istituto Nazionale Tumori, Istituto Italiano di Medicina Sociale, Agenzia Italiana del Farmaco, Aziende Ospedaliere e Aziende Sanitarie, Osservatori Epidemiologici Regionali, Agenzie Regionali e Provinciali di Sanità Pubblica, Assessorati Regionali e Provinciali alla Salute).


1. GLI INDICATORI

2. L’ITALIA FOTOGRAFATA DAL RAPPORTO

3. ITALIANI, GRANDI E PICCOLI, HANNO PESSIMI STILI DI VITA

4. UNA FOTOGRAFIA DEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE


1. GLI INDICATORI

Gli indicatori economici presi in esame in questa nuova edizione del Rapporto testimoniano che siamo entrati in un periodo di reale contrazione delle risorse impegnate dal Servizio Sanitario Nazionale (Ssn), infatti la spesa, già dal 2010, ha iniziato a diminuire (da 100,3 miliardi del 2009 a 100,1 miliardi di euro del 2010), delineando un trend che si è andato rafforzando nel 2012 anche a valori correnti (-1,8% rispetto al 2011). A questo dato fa riscontro la diminuzione della spesa per la remunerazione del personale sanitario, scesa nel 2011 a 36,149 miliardi di euro, con un decremento dell’1,4% rispetto al 2010. 

Altro segnale di riduzione della spesa pubblica arriva dall’aumento di spesa a carico delle famiglie per sostenere il pagamento della quota di compartecipazione e dei ticket per il consumo di farmaci: la spesa sostenuta da ciascun cittadino per l’acquisto di farmaci è più che raddoppiata in meno di dieci anni, passando infatti da 11,3 € del 2003 a 23,7 € nel 2012, ovvero è passato dal 5,2% del totale della spesa per farmaci, al 12,2% di essa. 

Sul versante dell’offerta, il dato che colpisce e che dà il senso della fase in cui ci troviamo è rappresentato dalla dotazione di personale nelle strutture pubbliche che, dal 2010, sta subendo evidenti contrazioni, come testimonia il tasso di turnover sceso oltre il 78%. Si evidenzia, come già negli anni precedenti, una progressiva riduzione del turnover del personale (nuovi assunti a sostituire il personale in pensionamento) e quindi una forte carenza di personale giovane, con riflessi negativi sull’occupazione qualificata del Paese e depauperamento progressivo delle sue migliori risorse che cominciano ad andare all’estero.

Difficile stabilire, a oggi, se questa situazione sia il frutto di interventi finalizzati al recupero di efficienza, ottenuto con la riduzione degli sprechi e delle inappropriatezze. Al contrario, questi segnali possono rappresentare le prime allarmanti avvisaglie di una strategia complessiva di ridimensionamento dell’intervento pubblico nel settore sanitario.

«La riduzione della spesa pubblica per contenere il debito e rispettare i vincoli di bilancio concordati con l’Europa – spiega il professor Walter Ricciardi, direttore di Osservasalute - mettono a rischio l’intero sistema di welfare italiano. Infatti, se prevarranno gli interventi basati su tagli lineari potremmo avere seri problemi a mantenere gli attuali standard della sanità pubblica. Già dal 2010 si osserva una contrazione del volume di attività di assistenza erogata dal Ssn, infatti la spesa a prezzi costanti (quella depurata dall’inflazione) nel 2010 si è attestata a 100,1 miliardi contro i 100,3 del 2009, tale trend si conferma nel 2012 quando anche la spesa a prezzi correnti (111 miliardi) è scesa rispetto al 2011 (113 miliardi)». 

Quanto alla salute dei cittadini, dalla lettura di alcuni indicatori, giungono timidi segnali positivi, come dimostra la diminuzione della mortalità per le malattie del sistema cardiocircolatorio, che hanno contribuito in misura maggiore all’aumento della speranza di vita in Italia. Dal 2006 al 2010 i tassi di mortalità per queste malattie sono passati per i maschi da 41,1 per 10 mila individui a 37,2 per 10 mila, per le femmine da 28,4 per 10 mila individui a 26 per 10 mila.

Questo dato è molto positivo, poiché si tratta di patologie per le quali l’attività di prevenzione gioca un ruolo centrale, per cui l’indicazione può essere interpretata come un risultato positivo del sistema. «Tuttavia, sulla ridotta mortalità per queste malattie gioca un ruolo importante anche la disponibilità di farmaci più efficaci e il continuo sviluppo della diagnostica strumentale - spiega Alessandro Solipaca, segretario scientifico dell’Osservatorio - si tratta, quindi, di un successo della medicina e non degli stili di vita degli italiani che, a parte qualche incoraggiante segnale positivo, restano nel complesso scorretti».

Infatti, guardando alla prevenzione primaria, se da un lato si conferma il trend in lenta discesa della prevalenza dei fumatori (nel 2010 fumava il 22,8% degli over-14 e nel 2011 il 22,3%, nel 2012 fuma il 21,9% degli over-14) e la diminuzione dei consumatori a rischio di alcol (12,5% nel 2011 contro il 13,4% del 2010 tra gli adulti di 19-64 anni e 11,4% nel 2011 contro il 12,8% del 2010 tra i giovani di 11-18 anni), dall’altro si riscontra il persistente aumento delle persone in eccesso di peso. Infatti, complessivamente, il 46% dei soggetti di età maggiore o uguale a18 anni è in eccesso ponderale (era il 45,4% nel 2009, il 45,9 nel 2010, il 45,8 nel 2011). In particolare sono proprio le persone con problemi di obesità ad aumentare: gli obesi, infatti, passano dal 10% degli italiani nel 2011 al 10,4% nel 2012). Inoltre tra i minori quasi il 27% di quelli tra 6 e 17 anni è sovrappeso o obeso. 

Si registra, inoltre, la scarsa pratica sportiva (nel 2012 la percentuale di sportivi assidui come nel 2011 si assesta sul 21,9% della popolazione con età maggiore o uguale a 3 anni). Riguardo all’eccesso di peso nei bambini, deve far riflettere il fatto che questo fenomeno è maggiormente presente nelle famiglie con basso livello di istruzione, ciò suggerisce la necessita di implementare politiche di prevenzione idonee a raggiungere anche le fasce di popolazione appartenenti alle classi sociali meno istruite. 

Altri indicatori in lieve miglioramento, al quale però contribuiscono anche altri settori pubblici, si riscontrano nei dati relativi alla raccolta differenziata e in quelli sugli incidenti stradali. Lo smaltimento differenziato dei rifiuti, nel 2012, è aumentato del 2,2 punti percentuali rispetto al 2011, soprattutto grazie alle regioni del Mezzogiorno. Gli incidenti stradali sono in diminuzione (-42,4% tra il 2001 e il 2010), così come i feriti e i decessi. Nel 2012 gli incidenti stradali con lesioni a persone sono stati 186.726 ed hanno causato 3.653 morti e 264.716 feriti con lesioni di diversa gravità. Rispetto all’anno precedente si riscontra una diminuzione del 9,2% del numero degli incidenti e del 9,3% di quello dei feriti (studi della Commissione europea). Il numero dei morti ha subito un decremento del 5,4% (dati Istat). Tale riduzione, tuttavia, non è ancora sufficiente per rispettare l’obiettivo fissato dall’Unione Europea che prevedeva di dimezzare, nello stesso lasso di tempo, i decessi. 

Gli indicatori presentati e la fase economica che sta attraversando il nostro Paese deve far riflettere per guardare avanti, sottolinea il professor Ricciardi: «Il futuro sarà negativo se non si è in grado di cogliere questa fase di ristrettezze economiche come un’opportunità per migliorare l’efficienza del sistema, eliminando la corruzione e gli sprechi reali che affliggono il nostro sistema pubblico. Per quanto osservato nel Rapporto, è fondamentale incrementare le risorse per la prevenzione primaria attraverso interventi sotto forma d’investimenti destinati ad avere alti rendimenti futuri. Al contrario, trascurare le politiche di prevenzione significa dissipare i progressi osservati in questi anni e, addirittura, rischiare di arretrare in termini di salute». 


2. L’ITALIA FOTOGRAFATA DAL RAPPORTO

Gli italiani sono sempre più anziani, fragili e non autonomi, mentre si dirada sempre di più il “futuro del Paese”, i bambini e i giovani, in particolare si riducono gli individui potenzialmente in età da lavoro. Il Paese è ringiovanito solo dai cittadini stranieri che hanno una demografia a favore delle classi di età più giovani. La popolazione più anziana è soprattutto donna e sono più che raddoppiati in dieci anni gli ultracentenari.

La speranza di vita della popolazione è in crescita, soprattutto grazie al contributo dato dalla riduzione di mortalità per tumori e malattie del sistema circolatorio.

L’Italia è un Paese anziano e “non autonomo”, ringiovanito solo dagli stranieri – L’Italia è sempre più popolata da anziani e una fascia di popolazione sempre più ampia non è autonoma, nel senso che dipende da altri dal punto di vista economico. Lo si vede da alcuni nuovi indicatori presi in esame per la prima volta in questa edizione del rapporto e precisamente l’indice di vecchiaia (Iv) che rappresenta un indicatore sintetico del grado di invecchiamento della popolazione e si ottiene rapportando l’ammontare della popolazione “anziana” (65 anni e oltre) e quello dei bambini (0-14 anni). 

L’Iv descrive un’Italia sempre più anziana: calcolato per il complesso dei residenti (italiani più stranieri) è pari nel 2011 a 148,7: in altre parole ogni 100 giovani di età minore di 15 anni risiedono in Italia oltre 148 persone di 65 anni e oltre. L’Iv assume valori particolarmente elevati in Liguria (238,4 per 100), Friuli Venezia Giulia (190 per 100) e Toscana (187,3 per 100). All'opposto, valori contenuti si sono registrati in Campania (101,9 per 100), nella Pa di Bolzano (111,1 per 100) e Sicilia (126,2 per 100).

Il Paese è ringiovanito dagli stranieri, infatti italiani e stranieri hanno una struttura per età estremamente differente. L’Iv per gli italiani è pari a 163,6 (per 100) contro l’11,6 (per 100) di quello calcolato per i residenti con cittadinanza straniera. I cittadini stranieri, quindi, contribuiscono a “ringiovanire” la popolazione residente e presentano valori dell’Iv particolarmente contenuti a causa sia dello scarso peso della popolazione anziana che dell’alta natalità.

Poi c’è l’indice di dipendenza (Id) che rapporta la quota delle persone teoricamente dipendenti da un punto di vista economico (ossia i più giovani e i più anziani) alle persone in età da lavoro, che si presume debbano sostenerle. A livello nazionale, l’Id è pari a 53,5: ovvero, ogni 100 persone in età attiva (15-64 anni) ce ne sono 53,5 che per motivi di età sono potenzialmente da loro “dipendenti”. Anche in questo caso il valore più elevato si registra in Liguria (63,8 per 100), mentre quello più contenuto in Sardegna (47,7 per 100). Lo stesso indicatore calcolato per i residenti stranieri è pari a 29,1 (per 100).

L’indice di struttura della popolazione attiva (Is) esprime, invece, il grado di invecchiamento di uno specifico settore della popolazione, ossia la popolazione in età da lavoro. Esso si ottiene rapportando le venticinque generazioni più anziane (cioè il segmento di popolazione 40-64 anni) alle venticinque più giovani (15-39 anni) che si suppone nel tempo si debbano sostituire alle più invecchiate. L’Is della popolazione attiva è pari a 120,7: ossia ogni 100 residenti di 15-39 anni ce ne sono poco più di 120 della fascia di età 40-64 anni. L’indicatore, che ancora una volta raggiunge il suo massimo in Liguria (150,5 per 100) e il suo minimo in Campania (102,0 per 100), è un’ulteriore misura dell’invecchiamento della popolazione in quanto le venticinque generazioni più giovani di quelle in età attiva sono meno numerose delle venticinque generazioni più vecchie.

L’Italia si conferma sempre più vecchia – Nel Rapporto 2013 sono utilizzati i dati del 15° censimento e si vede che nel 2011 la popolazione in età 65-74 anni rappresenta il 10,5% del totale della popolazione residente; i valori regionali variano da un minimo dell’8,7% della Campania a un massimo di 13,1% della Liguria. Si conferma il differente peso della popolazione in età 65-74 anni tra gli italiani e gli stranieri. Infatti, per la componente italiana questi rappresentano l’11,1% della popolazione residente contro l’1,7% della componente straniera. I “molto anziani” (75-84 anni) rappresentano il 7,5% del totale della popolazione, ma, anche in questo caso, è possibile notare delle differenze geografiche.

In Liguria, che come detto è la regione con la struttura per età più sbilanciata verso le classi di età maggiori rispetto alle altre regioni, tale contingente rappresenta ben il 10,2% del totale, ma valori elevati vengono riscontrati anche in Umbria e Molise (entrambe 8,8%). Infine la popolazione dei “grandi vecchi” è pari al 2,8% del totale della popolazione residente con massimi del 4,2% della popolazione in Liguria e di oltre il 3% in Piemonte, Pa di Trento, Friuli Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Abruzzo e Molise. La quota di popolazione straniera in questa fascia di età è del tutto irrisoria: solo lo 0,1% di questi ha 85 anni e oltre.

Più gli anni passano, più l’Italia è “rosa” – Si registra l’aumento della componente femminile all’aumentare dell’età: la quota di donne è del 53,3% tra gli anziani di 65-74 anni, diventa del 58,9% tra i molto anziani di 75-84 anni e arriva al 69,6% tra i grandi vecchi (85 anni ed oltre).

Più che raddoppiati gli ultracentenari negli ultimi dieci anni (2002-2011) – Quest’anno il rapporto guarda anche all’ammontare della popolazione di 100 anni e più per entrambi i sessi. Questo segmento di popolazione è cresciuto in modo consistente nell’ultimo decennio (2002-2011). In particolare, gli ultracentenari sono più che raddoppiati, passando da poco più di 6.100 nel 2002 a oltre 13.500 nel 2011. Le donne sono la maggioranza: nel 2011, infatti, le donne rappresentano l’82,8% del totale degli ultracentenari.

In termini relativi, nel 2002, ogni 10.000 residenti uno era ultracentenario, mentre nel 2011 ben più di due. Se si considera il solo contingente femminile, negli stessi anni si è passati da 1,8 a 3,7 ultracentenarie ogni 10.000 residenti.

Speranza di vita in crescita, si muore meno tra zero e 84 anni – La speranza di vita alla nascita nel 2010 è di 79,4 anni per gli uomini e 84,5 anni per le donne. Complessivamente dal 2006 gli uomini hanno guadagnato un anno di vita (365 gg) e le donne 0,5 anni (ovvero 183 gg). Continua, quindi, ad aumentare la sopravvivenza media degli italiani e si assiste a un progressivo ravvicinamento della durata media della vita tra gli uomini e le donne. Il massimo divario di genere si osserva nel 1992, anno nel quale le donne hanno una speranza di vita di 6,6 anni più elevata rispetto agli uomini; nel 2010, tale distanza si riduce a 5,1 anni.

Quest’anno gli autori hanno anche scomposto l’incremento della sopravvivenza guardando ai contributi delle seguenti classi di età: 0-18, 19-64, 65-74 e 75 anni ed oltre. È emerso che dei 365 giorni di vita guadagnati in media dagli uomini, ben 276 giorni sono ascrivibili alla riduzione della mortalità tra 0-74 anni (le classi 0-18, 19-64 e 65-74 anni hanno tutte contributi positivi) e 88 giorni nella fascia di età 75 anni ed oltre.  Le donne hanno, invece, guadagnato complessivamente 123 giorni per effetto della riduzione della mortalità entro i 74 anni e 59 giorni nella classe 75 anni ed oltre. 

Nel confronto tra i due generi, la riduzione delle differenze nella speranza di vita è quasi tutta da attribuire alla migliore performance degli uomini rispetto alle donne nelle età tra 0-74 anni (+276 gg vs +124 gg). A livello regionale, esistono ancora forti differenze, sebbene la geografia della mortalità tenda nel tempo a divenire più omogenea. Tanto per gli uomini che per le donne, la Campania (2006: maschi 76,9 anni e femmine 82,5 anni; 2010: maschi 77,8 anni e femmine 82,8 anni) ha valori della speranza di vita tra i più bassi, sia nel 2006 sia nel 2010, e il divario con il valore nazionale aumenta nel tempo. L’incremento della sopravvivenza in questa regione è, infatti, lievemente più basso di quello osservato per l’Italia. 

Tra le aree più favorite in termini di sopravvivenza troviamo le Marche, la Pa di Trento e la Pa di Bolzano; quest’ultima, nel 2010 è l’area geografica con la più alta speranza di vita per gli uomini (80,5 anni) e la terza per le donne (85,3 anni). È invece la Pa di Trento che nel 2010 presenta il più alto valore della speranza di vita femminile (85,5 anni). 

Si muore di più per disturbi psichici e malattie del sistema nervoso, di meno per tumori e malattie cardiovascolari – Il Rapporto indica quest’anno anche quali sono le cause di morte che hanno avuto un ruolo importante nella recente evoluzione della sopravvivenza in Italia. In Italia, il tasso standardizzato di mortalità è in riduzione ed è passato da 112,6 nel 2006 a 105,9 nel 2010 per 10.000 negli uomini e da 68,7 nel 2006 a 66,8 nel 2010 per 10.000 nelle donne. Gli uomini hanno, mediamente, livelli più alti di mortalità (in particolare, per le malattie del sistema cardiocircolatorio e i tumori), ma tra il 2006 e il 2010 è proprio la mortalità a ridursi di più.

Se andiamo a vedere nel dettaglio, si evidenzia che si muore meno per tumori maligni, malattie del sistema circolatorio, malattie dell'apparato digerente e cause di morte violenta, ma si muore di più per disturbi psichici e comportamentali e malattie del sistema nervoso. Per le donne i miglioramenti nella sopravvivenza si devono soprattutto a riduzione della mortalità per malattie del sistema circolatorio, infatti le donne hanno guadagnato 131 giorni di vita dal 2006 al 2010 per riduzione della mortalità per queste malattie. Mentre un contributo negativo che pesa sulla speranza di vita femminile è la mortalità per disturbi psichici e malattie del sistema nervoso (che hanno tolto 27 giorni di vita alle donne tra 2006 e 2010). 

Per gli uomini la speranza di vita è aumentata soprattutto grazie alla riduzione della mortalità per i tumori maligni (hanno guadagnato 115 giorni da 2006 a 2010) e per le malattie del sistema circolatorio (+141 gg).


3. ITALIANI, GRANDI E PICCOLI, HANNO PESSIMI STILI DI VITA

Gli italiani sono sempre più grassi, aumenta la percentuale di obesi e il fenomeno dell’eccesso ponderale non risparmia bambini e ragazzi. Restano pochi gli sportivi, meno di uno su quattro pratica uno sport in modo costante, mentre si registra una lieve riduzione dei sedentari. A ciò si aggiunge il fatto che i cittadini del Belpaese continuano a consumare poca frutta e verdura. In positivo si nota che continua il trend in diminuzione dei consumatori di alcolici e si osserva anche una lieve diminuzione dei consumatori di alcol con comportamenti a rischio.

Inoltre, continuano a calare i fumatori, non perché chi già ha il vizio smetta di fumare (infatti non aumentano gli ex-fumatori), ma perché diminuisce il “ricambio generazionale” in merito a questo pessimo comportamento. Si arresta, inoltre, l’aumento del consumo di antidepressivi che aveva caratterizzato l’ultimo decennio. Infine si registra una flessione nel tasso di suicidi, ma ancora si rileva in crescita il rischio di suicidio tra gli uomini.

Sempre più grassi gli italiani, aumenta l’obesità – Continua a crescere, anche se di poco, la percentuale di italiani che ha problemi con la bilancia: complessivamente, il 46% dei soggetti di età maggiore o uguale a 18 anni è in eccesso ponderale (era il 45,4% nel 2009, il 45,9 nel 2010, il 45,8 nel 2011). In Italia, nel periodo 2001-2012, è aumentata la percentuale delle persone in sovrappeso (33,9% vs 35,6%), soprattutto è aumentata la quota degli obesi (8,5% vs 10,4%). Nel 2012, oltre un terzo della popolazione adulta risulta in sovrappeso (35,6%). Il sovrappeso si riferisce a un Indice di massa corporea – Imc – tra 25 e 30. Mentre è obesa (Imc>30) oltre una persona su dieci (10,4%, contro il 10% nel 2011). 

 Si conferma il gradiente Nord-Sud: le regioni meridionali presentano la prevalenza più alta di persone obese (Puglia 12,9% e Molise 13,5%) ed in sovrappeso (Basilicata 39,9% e Campania 41,1%) rispetto alle regioni settentrionali (obese: Liguria 6,9% e PA di Bolzano 7,5%; sovrappeso: Liguria 32,3% e Pa di Bolzano 32,5%).

Più si invecchia, più si ingrassa: la percentuale di popolazione in condizione di eccesso ponderale (in sovrappeso o obesa) cresce all’aumentare dell’età. Nello specifico, il sovrappeso passa dal 15,8% della fascia di età 18-24 anni al 45,8% tra i 65-74 anni, mentre l’obesità dal 2,8% al 15,9% per le stesse fasce di età. Nelle età più avanzate il valore diminuisce lievemente (sovrappeso 42,5% ed obesità 13,2% nelle persone di 75 anni ed oltre) rispetto alla fascia di età precedente.

Uomini peggio delle donne: come nelle precedenti edizioni gli uomini hanno più problemi delle donne: è in sovrappeso il 44,2% degli uomini rispetto al 27,6% delle donne; è obeso l’11,3% degli uomini e il 9,5% delle donne. 

Troppi i bambini e gli adolescenti “taglia extra large”, soprattutto maschi – I dati (media 2011-2012) mostrano che i bambini e gli adolescenti in eccesso di peso sono una quota considerevole pari al 26,9% (ovvero più di un giovane su 4 dai 6 ai 17 anni). Emergono forti differenze di genere: il fenomeno è più diffuso tra i maschi che tra le femmine (30,1% contro il 23,6%). Tali differenze permangono in tutte le classi di età e sono più marcate tra gli adolescenti (14-17 anni).

L’eccesso di peso raggiunge la prevalenza più elevata tra i bambini di 6-10 anni dove supera il 35%. Al crescere dell’età, il sovrappeso e l’obesità vanno tuttavia diminuendo, fino a raggiungere il valore minimo tra i ragazzi di 14-17 anni. 

Esiste un gradiente Nord-Sud – Come per l’eccesso di peso degli adulti, anche per quello dei minori si osserva un forte gradiente Nord-Sud. Le prevalenze di sovrappeso ed obesità tra i minori aumentano significativamente passando dal Nord al Sud (34,6% al Sud rispetto al 22,7% del Nord-Ovest, al 21,1% del Nord-Est, al 24,6% del Centro ed al 31,1% delle Isole), con percentuali particolarmente elevate in Campania (40,6%), Sicilia (33,3%), Molise e Basilicata (32,9%) e Calabria (30,5%).

Pesano sulla bilancia dei bambini disponibilità economiche e livello di istruzione di mamma e papà: analizzando il fenomeno dell’eccesso di peso in relazione ad alcune informazioni che si riferiscono al contesto familiare, si osservano prevalenze più elevate tra i bambini e ragazzi che vivono in famiglie con risorse economiche scarse o insufficienti, ma soprattutto in cui il livello di istruzione dei genitori è più basso. Inoltre, sono soprattutto i bambini e i ragazzi che vivono in famiglie in cui almeno uno dei genitori è in eccesso di peso ad essere anche loro in sovrappeso od obesi: se entrambi i genitori sono in eccesso di peso, la percentuale di bambini e adolescenti dai 6 ai 17 anni in sovrappeso sale al 38,1% rispetto alla percentuale del 28,1% (solo madre in sovrappeso) e del 26,5% (solo padre in sovrappeso). La quota di bambini in sovrappeso con entrambi i genitori normopeso scende al 20,4%. 

«I bambini sono sicuramente più sedentari di un tempo - spiega il dottor Solipaca - anche a causa dell’elevato utilizzo di giochi informatici e di minore disponibilità di tempo da dedicare al gioco libero e all’aperto. Inoltre, l’organizzazione scolastica attuale prevede un numero più elevato di ore da trascorrere in classe e ciò favorisce la sedentarietà dei ragazzi».

Restano pochi gli sportivi, meno di un italiano su 4 pratica uno sport in modo costante; lieve riduzione dei sedentari – Rispetto alla precedente edizione del Rapporto, resta invariata la percentuale di sportivi assidui: come nel 2011 si assesta sul 21,9% della popolazione con età maggiore o uguale a 3 anni. Nel 2010 il 22,8% della popolazione con età maggiore o uguale a 3 anni praticava con continuità, nel tempo libero, uno o più sport (nel 2009 era il 21,5%, nel 2008 era il 21,6%, nel 2007 il 20,6%). 

Il 9,2% degli italiani pratica sport in modo saltuario. Coloro che, pur non praticando uno sport, svolgono un’attività fisica (passeggiare per almeno 2 km, nuotare, andare in bicicletta etc) sono il 29,2% della popolazione, mentre i sedentari sono circa 23 milioni, pari al 39,2%, dato che mostra una lieve diminuzione dal 2011 quando erano il 39,8%. Come emergeva dalla scorsa edizione del Rapporto, l’abitudine all’attività fisica non è uguale in tutte le regioni, ma c’è un gradiente Nord-Sud con livelli più elevati e continui di svolgimento di una qualsiasi attività fisica nella Pa di Bolzano (37,3%) e nella Pa di Trento (29,4%)e livelli più bassi in Campania (13,6%) e la Sicilia (13,5%). Ciò potrebbe riflettere, ipotizzano gli autori del Rapporto, anche una diversa disponibilità di strutture organizzate. 

Gli italiani consumano meno frutta e verdura – Complessivamente, le persone di 3 anni e oltre che consumano quotidianamente Verdura, Ortaggi e Frutta (Vof) costituiscono una percentuale abbastanza stabile con un minimo di 83,7% nel 2009 e un massimo di 85,3% nel 2006, per attestarsi all’85% nel 2011 come valore nazionale. Osservando, tra di loro, la percentuale di persone che mangia almeno 5 e più porzioni al giorno di Vof, si è registrato un massimo di 5,7% nel 2008 al termine di un periodo di crescita dell’indicatore che partiva da un 5,3% nel 2005. Nel 2009 è sceso al 4,8% per poi risalire nel 2010 (5,5%) e, infine, attestarsi al 4,9% nel 2011. nel 2012 si registra un altro leggero calo fino al 4,7%.

«Probabilmente gli stili alimentari stanno cambiando sotto la spinta dell’industria alimentare che propone modelli di consumo molto variegati soprattutto per ampliare l’offerta per i consumatori – spiega il dottor Solipaca -. Inoltre, lo spostamento del mercato verso la grande distribuzione favorisce la vendita di prodotti non artigianali ma industriali, prodotti molto lavorati e quindi non genuini, il cosiddetto cibo spazzatura».

Alcolici, continua il trend in diminuzione dei consumatori; lieve diminuzione dei consumatori a rischio – Diminuiscono i consumatori, passando dal 65,7% del 2011 al 65% del 2012. La prevalenza dei non consumatori (astemi e sobri negli ultimi 12 mesi) è pari nel 2011 al 33,6% ed è aumentata rispetto all’ultimo anno di 0,9 punti percentuali. 

L’aumento rispetto all’anno 2010 è statisticamente significativo sia a livello nazionale sia in Toscana ed in Abruzzo (+3,6). L’aumento dei non consumatori in Abruzzo si spiega soprattutto con l’aumento degli astemi (cioè di coloro che non hanno mai bevuto nella loro vita); si registra, invece, un aumento significativo a livello nazionale di 1,1 punti percentuali degli astinenti degli ultimi 12 mesi, che risulta significativo nella Pa di Trento (+3,3), Friuli Venezia Giulia (+2,4), Toscana (+1,8), Puglia (+2,2) e Sicilia (+2).

Si riduce la prevalenza di consumatori a rischio per maschi e femmine dagli 11 anni in su: nel 2011 è pari al 23,9% per gli uomini, con una riduzione di 1,5 punti percentuali rispetto al 2010, ed al 6,9% per le donne, con una riduzione di 0,4 punti percentuali rispetto al 2010. 

In conclusione, afferma il dottor Emanuele Scafato dell’Istituto Superiore di Sanità, direttore dell’Osservatorio nazionale alcol del Centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute (Cnesps), «nonostante qualche timido segnale di attenuazione del fenomeno del consumo alcolico a rischio, l’analisi complessiva dei dati evidenzia la presenza di uno ‘zoccolo duro’ di individui che contribuiscono a rendere consolidato nel corso degli anni un fenomeno che, nonostante gli interventi di prevenzione, di comunicazione, di sensibilizzazione, non riesce a cogliere l’atteso obiettivo di contrasto all’uso rischioso e dannoso di alcol e di sostanziale diminuzione dell’impatto alcol-correlato auspicato dai piani e dalle strategie in atto, sanitarie e di salute. Sono ancora troppi i consumatori, adulti, a maggior rischio e coloro che bevono per ubriacarsi, in particolare i giovani e i minori che bevono secondo modalità di binge drinking che non possono essere associate esclusivamente a culture trasgressive o di tendenza, ponendo un serio problema di legalità e di rispetto delle norme previste a tutela dei minori. Il settore della prevenzione può fare tanto ma molto dipende, evidentemente, dall’attivazione di altre e ulteriori competenze».

Continuano a calare i fumatori, ma non grazie alle persone che smettono di fumare – Continua il trend in lenta discesa dei fumatori, infatti, mentre nel 2010 fumava il 22,8% degli over-14 e nel 2011 il 22,3%, nel 2012 fuma il 21,9% degli over-14. Il dato si colloca in un trend caratterizzato da una lenta ma costante diminuzione della percentuale di persone che fumano dal 2001 al 2012. Per contro, non si è registrato un aumento di persone che hanno smesso di fumare (gli ex-fumatori sono il 22,6% degli over-14 nel 2012, erano di più, il 23,4%, nel 2011) andando ad interrompere la linea in crescita degli ultimi anni.

Non emergono grandi differenze territoriali nell’abitudine al fumo: si fuma di più in Sicilia (24,5%) e in Campania (24,6%), di meno in Valle d’Aosta (15,5%) e nella Pa di Trento (18,2%). 

La prevalenza di ex-fumatori è piuttosto omogenea sul territorio, con tassi maggiori in Friuli Venezia Giulia (26,5%) e Umbria (26,9%); la Campania, invece, si discosta negativamente perché neppure due persone su dieci (18,1%) sono ex-fumatori. Diversamente, i non fumatori sono maggiori al Sud, in particolare in Calabria (60,1%) ed in Puglia (60,9%). Notevoli sono le differenze di genere: gli uomini fumatori sono il 27,9%, mentre le donne il 16,3%. Il tabagismo è più diffuso in due differenti fasce di età: i giovani di 25-34 anni e gli adulti di 45-54 anni, in cui quasi tre persone su dieci sono fumatori (rispettivamente, 28,6% e 28,7%).

Si arresta l’aumento del consumo di antidepressivi che aveva caratterizzato l’ultimo decennio – Si arresta il trend di aumento del consumo di farmaci antidepressivi, emerso nelle precedenti edizioni del Rapporto. Il volume prescrittivo di questi farmaci che aveva mostrato un continuo aumento dal 2000 (8,2 in DDD/1000 ab die) al 2011 (36,9 in DDD/1000 ab die), nel 2012 è di 36,8 DDD/1.000 ab die, in leggera discesa. 

Il trend in aumento nel corso degli anni dei consumi di antidepressivi è attribuibile a molteplici fattori: la riduzione della stigmatizzazione delle problematiche depressive, l’aumento dell’attenzione del Medico di medicina generale (Mmg) nei confronti della patologia con conseguente miglioramento dell’accuratezza diagnostica e l’arricchimento della classe farmacologica di nuovi principi attivi utilizzati anche per il controllo di disturbi psichiatrici non strettamente depressivi (ad esempio disturbi d’ansia). Tali farmaci vengono utilizzati sempre più frequentemente come parte integrante della terapia di supporto di soggetti affetti da gravi patologie degenerative e oncologiche e i mutamenti del contesto sociale, influenzati dall’aggravarsi della crisi economica ancora in corso, possono aver modificato in senso incrementale i consumi. 

In flessione i suicidi, ma ancora in aumento il rischio tra gli uomini – Nel biennio 2008-2009, il tasso medio annuo di mortalità per suicidio era pari a 7,23 per 100.000 residenti dai 15 anni in su. Nel biennio successivo, 2009-2010, scendiamo leggermente a 7,21. Nel 78,1% dei casi il suicida è un uomo. Il tasso di mortalità è pari a 12,15 (per 100.000) per gli uomini e a 3 per le donne.

Dal confronto dei tassi specifici per età negli ultimi due bienni considerati si rileva per gli uomini un aumento della mortalità per suicidio nella fascia di età lavorativa tra i 30-69 anni del 10,21%, mentre vi è una riduzione del 14,3% tra i più giovani (maschi di 15-19 anni) e una riduzione del 4,46% tra gli anziani di 70 anni ed oltre.

Per le femmine di 15-29 anni c'è una riduzione del 6,93%; per quelle di 30-69 anni c'è una riduzione del 2,53%; per le donne anziane di 70 anni ed oltre si registra una riduzione del 2,47%


4. UNA FOTOGRAFIA DEL SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE

Leggera flessione della spesa sanitaria in rapporto al Pil – La spesa sanitaria pubblica corrente in rapporto al Pil a livello nazionale, pur denunciando una crescita dal 2005 al 2012 ad un tasso medio annuo dello 0,77%, manifesta una flessione a partire dal 2009 passando dal 7,22% al 7,04%. Questo andamento è in linea con gran parte dei Paesi Ocse, dove la crescita della spesa sanitaria pubblica rispetto al Pil si è rallentata a partire dal 2009 e il tasso medio annuo composto si posiziona sotto l’1,0% nel periodo 2005-2011.

Negli anni 2009-2010-2011 il valore italiano è allineato alla media dei Paesi Ocse, anche se inferiore a quelli di altri Paesi come Uk, Germania, Francia e Usa di circa 1,5 punti percentuali.

A livello regionale, il trend 2005-2012 registra un tasso medio annuo della spesa sanitaria pubblica rispetto al PIL positivo per la maggior parte delle regioni, con l’eccezione di 6 di esse che presentano, invece, una leggera flessione: Abruzzo (-1,18%), Pa di Bolzano (-1,18%), Molise (-1,00%), Liguria (-0,50%), Campania (-0,26%) e Lazio (-0,11%). A partire dal 2010 si registra, anno dopo anno, una contrazione della spesa sanitaria pubblica rispetto al Pil che interessa 7 regioni nel 2010, si estende a tutte, eccetto la Pa Trento, nel 2011 e ne coinvolge 8 nel 2012.

La situazione vede, in tutti gli anni 2010-2012, un gradiente Nord-Sud ed Isole: le regioni meridionali si presentano con valori superiori all’8% circa e sempre maggiori del dato nazionale, mentre le regioni settentrionali spendono meno del 7,5% circa. L’incidenza minima si ha sempre in Lombardia e la massima in Campania con un divario che si riduce leggermente negli anni passando da 5,36 nel 2010 a 4,84 nel 2012.

Le risorse per i Lea non sono uguali in tutte le regioni – La spesa corrente pubblica sul Pil, dunque, si presenta ancora molto variegata fra le regioni con un netto gradiente Nord-Sud ed Isole. «È una situazione che si registra da anni - rileva il professor Ricciardi - come risulta dalle precedenti edizioni del Rapporto Osservasalute, e non accenna a modificare l’andamento. e testimonia che alcune regioni hanno maggiori risorse di altre per garantire i Lea ai loro cittadini».

Al fine di omogeneizzare le risorse e renderle più rispondenti alle condizioni di salute della popolazione, sarebbe auspicabile che si procedesse ad un’analisi integrata dei diversi indicatori disponibili al fine di tarare meglio i criteri di ripartizione delle risorse basandoli sulle reali condizioni di salute della popolazione, continua il professor Ricciardi. Al tempo stesso, sarebbe opportuno che le regioni adottassero tecniche di programmazione delle attività sanitarie e delle correlate risorse (strumentazioni, personale e altri beni) in modo da evitare inutili duplicazioni o situazioni di carenze strutturali che conducono ad una lievitazione della spesa.

I bilanci delle Asl sono migliorati – L’analisi di alcuni indicatori calcolati utilizzando i dati dei bilanci della Asl (che nel Rapporto sono analizzate come aggregati provinciali, ovvero come la somma di tutte le Asl dislocate in ciascuna provincia) evidenzia che si sono ridotti di molto gli aggregati provinciali con deficit molto elevati (ossia deficit superiori al 5% dei proventi): sono solo 12 aggregati nel biennio 2011-2012, contro i 52 del triennio 2002-2004. Si evidenzia inoltre che gli aggregati provinciali con forti deficit non sono concentrati dal punto di vista geografico (al massimo sono due per regione, in contrapposizione al triennio 2002-2004, in cui ben sette regioni si caratterizzavano per la presenza di perdite elevate in tutti gli aggregati provinciali). L’esame contabile presentato nel Rapporto dice che il finanziamento pro capite dal fondo sanitario regionale è più basso per le Aziende con bilancio in deficit (nel biennio 2011-2012 si attesta, in media, tra 1.647 euro e 1.752 euro pro capite per le aziende in avanzo di bilancio, mentre per quelle in deficit tra i 1.551 e i 1.672), così come la loro capacità di reperire finanziamenti aggiuntivi (tra 48 e 51 euro pro capite per le aziende con bilanci in attivo e tra 39 e 43 per quelle in deficit).

I risultati positivi riscontrati negli ultimi anni nei bilanci non devono, però, far dimenticare che il contenimento della spesa dovrebbe incidere su situazioni di inefficienza e inappropriatezza, quindi salvaguardare gli attuali livelli di servizio. Tuttavia, in molti casi, risparmio e razionalizzazione sono stati perseguiti tramite “tagli lineari” sul finanziamento, nella speranza di indurre le aziende a “fare lo stesso con meno”, senza introdurre le opportune innovazioni di prodotto (il mix di servizi offerti) e di processo (le modalità di produzione ed erogazione dei servizi).

Il personale sanitario è donna e in là con gli anni – A livello nazionale nel 2011 il personale dipendente del SSN è composto, prevalentemente (75,5%) da persone di 40-59 anni. I dati mostrano che è più elevata la quota di personale di età maggiore o uguale a 60 anni (5,0%) rispetto a quella di età minore di 30 anni (3,0%). A livello regionale, su quest’ultimo aspetto, si registra un marcato divario Nord-Sud ed Isole: infatti, nel Nord è più elevata la percentuale di personale di età minore di 30 anni (in particolare, in Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna), mentre nel Centro-Sud ed Isole prevale la componente di personale di età maggiore di 60 anni (in particolare, nel Lazio, in Campania e in Sicilia).

L’analisi mostra anche che le donne rappresentano il 64,7% del personale dipendente, mentre gli uomini il 35,3% (dati Conto Annuale, Ragioneria Generale dello Stato). Per quanto riguarda il personale di età <50 anni, le donne sono più numerose degli uomini in tutte le regioni; si osserva la stessa statistica per la fascia 50-59 anni in tutte le regioni tranne che per la Campania, la Calabria e la Sicilia.

Sostanzialmente l’organico del Servizio sanitario nazionale (Ssn) ha subito una contrazione, come evidenziato dal rapporto tra personale pensionato e nuovi assunti (compensazione del turnover) che è sempre inferiore a 100 dal 2008 al 2011 (97,2 96,8 81,9 78,2). Analizzando il trend tra il 2008 e il 2011 si evince che il tasso di compensazione si e costantemente ridotto nel periodo considerato, arrivando a segnare 78,2 punti percentuali nel 2011.

Ancora tanti, e in leggero aumento, i “viaggi per la salute”; soprattutto da Sud a Nord – Il Rapporto analizza quest’anno la mobilità ospedaliera, ovvero gli spostamenti interregionali dei pazienti per sottoporsi a cure e interventi chirurgici che richiedono un ricovero. Il fenomeno della mobilità ospedaliera di una regione esprime la capacità di attrarre pazienti che risiedono in altre regioni. In tal caso si parla di mobilità attiva, mentre si parla di mobilità passiva quando la tendenza dei pazienti è di emigrare fuori regione. La mobilita dei ricoveri per acuti in regime di Ricovero Ordinario (Ro) risulta in leggera crescita: era il 6,9% dei ricoveri (delle dimissioni per acuti in Ro) nel 2002, il 7,4% nel 2007 e il 7,5% nel 2012.

Invece se guardiamo al numero dei ricoveri fuori regione in valore assoluto, complessivamente si osserva un trend decrescente: si passa da 606.192 dimissioni in mobilità nel 2002 a 575.678 nel 2007 e 505.675 nel 2012. ma i valori assoluti diminuiscono perché diminuiscono negli anni i ricoveri nel loro complesso e non, quindi, perché si riducono i viaggi della salute.

Tutte le regioni meridionali e insulari presentano un saldo negativo dei ricoveri in mobilità, ossia si rileva un’eccedenza delle emigrazioni, con la sola eccezione del Molise. Tra queste, nel 2012, spicca il saldo negativo della Campania. Anche tra le regioni del Nord ci sono quelle con saldo negativo come Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria e Pa di Trento. Consistenti saldi positivi si rilevano per Lombardia, Emilia-Romagna e Toscana.