Un'aula di giustiziaLa legge sui pentiti avrebbe contribuito in modo sostanziale alla lotta contro le mafie, facendo registrare una consistente riduzione degli omicidi perpetrati dalle tre maggiori organizzazioni criminali: Camorra, N’drangheta e Mafia siciliana. Ma anche a un incremento del numero di procedimenti penali per associazione mafiosa: dal 1982 al 2001, l’articolo 416 bis del codice penale ha determinato la condanna di 5.443 cittadini italiani, di cui più del 93% del totale dei condannati sono stati giudicati dai Tribunali di Sicilia, Campania, Puglia e Calabria. È la tesi di fondo di un lavoro scientifico condotto da Salvatore Piccolo (nella foto sotto), docente di Economia politica all’Università Cattolica. Lo studio intitolato Accomplice-Witnesses and Organized Crime: Theory and Evidence from Italy vuole fornire una valutazione sull’efficacia delle misure di protezione nei confronti dei pentiti in Italia, ambito sul quale, al momento, non esiste un’analisi sistematica.

L’indagine, di recente pubblicata nello “Scandinavian Journal of Economics”, è opera non di un giurista, ma di un economista mosso prima di tutto da motivi personali: «Il mio interesse nasce dopo aver letto svariati libri di mafia, in particolare “Cose di Cosa Nostra” di Giovanni Falcone. Un libro che evidenzia più volte il ruolo fondamentale dei collaboratori di giustizia e ne sottolinea l’importanza per il futuro della lotta alla criminalità». Dal punto di vista puramente scientifico le motivazioni sono altre: «Mi sono avvicinato al tema grazie al mio interesse per l’economia delle organizzazioni: i clan criminali sono delle vere e proprie organizzazioni con regole interne, codici d’onore e debolezze strutturali. Credo sia importante capire a fondo tale aspetti per combattere in modo più efficiente le mafie».

Dando uno sguardo all’analisi, emerge che ci sono una serie di dati concreti a sostegno della tesi che giudica rilevante il ruolo giocato dai collaboratori di giustizia nella lotta contro la criminalità organizzata. Nel 2008, per esempio, su 833 pentiti partecipanti al programma di protezione, 729 (cioè, l’87% del totale), hanno fornito informazioni relative alle quattro associazioni di mafia più conosciute. Ma c’è stata anche una netta inversione di tendenza del numero di omicidi dolosi nel nostro Paese riconducibili a Camorra, N’drangheta e Mafia siciliana che nel 1992 si determina rispetto al decennio precedente. Difatti, dopo una crescita sostenuta nel corso degli anni ottanta del Novecento che culminò con 719 omicidi riconducibili alle tre principali associazioni mafiose, il numero di omicidi cominciò a ridurre fino alla cifra di 119 nel 2007.

«Se confrontiamo questi valori con quelli relativi al totale degli omicidi dolosi si scopre comunque che nel 1991 gli omicidi di Camorra, N’drangheta e Mafia siciliana erano circa il 40% del totale in Italia, mentre nel 2007 la corrispondente percentuale diventa pari al 15% circa - spiega il professor Piccolo -. L’evidenza appena descritta ci porta a ritenere che la drastica riduzione degli omicidi di mafia dopo il 1991 emergerebbe come una caratteristica peculiare di tale classe di reati se si riuscisse a identificare in modo preciso gli omicidi dolosi non perpetrati dalle associazioni criminali». Secondo l’autore dello studio il modo migliore per verificare questa ipotesi sarebbe quella di analizzare l’evoluzione degli omicidi nelle regioni in cui l’infiltrazione delle organizzazioni mafiose era, almeno nel secolo scorso, quasi del tutto assente.

«PeIl professor Salvatore Piccolor esempio se si analizza in Veneto, Emilia Romagna e Toscana il numero di omicidi dolosi per motivi diversi da furto e rapina e non associabili alle tre principali organizzazioni mafiose, si nota una evoluzione diversa da quella degli omicidi di mafia. In particolare, dopo una leggera flessione nel periodo 1992-96, si registra un prolungato incremento che riporta il numero di omicidi nel 2003 a un livello simile a quello del 1991. Una tendenza alla crescita su tutto il periodo analizzato si registra anche per le rapine in banca e negli uffici postali».

Ulteriore sostegno all’ipotesi che la legge sui pentiti abbia contribuito in modo sostanziale alla lotta contro le mafie emerge analizzando l’evoluzione dei procedimenti penali relativi al reato di associazione a delinquere di stampo mafioso - art. 416 bis del Codice Penale. «Dal 1992 al 1997, cioè durante gli anni in cui il numero di pentiti è cresciuto considerevolmente, si registra un sostanziale incremento del numero di procedimenti penali: un aumento che non è riscontrabile, invece, se analizziamo lo stesso indice con riferimento al reato di associazione per delinquere - art. 416 del Codice Penale - spiega Piccolo - . Inoltre, sebbene nei primi anni considerati i valori dell’indice, calcolato per il reato di associazione mafiosa, fossero ben al disotto dei corrispondenti valori relativi al reato di associazione per delinquere, dal 1992 in avanti si verifica il contrario (tranne l’eccezione del 1999). Un’analisi più approfondita a livello di province conferma il precedente risultato. Inoltre, restringendo l’analisi al periodo 2000-07 si nota che il numero di persone accusate di avere commesso un reato di mafia (secondo la classificazione fornita dall’art. 51 comma 3bis del Codice di procedura Penale) e per cui è stato richiesto il rinvio a giudizio passa dal 31% del totale delle persone investigate al 47%».

A questo primo studio del professor Piccolo, ne è seguito un altro prettamente teorico del fenomeno. «In questo nuovo lavoro - spiega il docente - insieme ad altri colleghi ci stiamo concentrando sul ruolo dell’informazione che i pentiti trasmettono ai giudici. La domanda fondamentale è come disegnare un meccanismo di sconti di pena che garantisca testimonianze veritiere».

La domanda, a questo punto è: studi di questo tipo possono in un certo senso contribuire a sviluppare politiche utili a combattere la mafia? «Difficile rispondere, anche perché i lavori scientifici non hanno immediate ricadute nel mondo politico e burocratico. Di certo i risultati empirici del lavoro dimostrano che l’impatto del programma dei pentiti in Italia non è stato statisticamente trascurabile. Potrebbe aiutare gli addetti ai lavori a disegnare il programma e a scegliere quali incentivi implementare».