di Riccardo Redaelli *

Il timore è che l’approvazione delle modifiche costituzionali fortemente volute dal presidente Recep Tayyip Erdogan finisca per spazzare via quel poco che rimane della democrazia turca. Per questo il risultato del referendum del 16 aprile risulta davvero cruciale. Non si tratta semplicemente, come affermano i sostenitori del “sì”, di rendere più incisiva l’azione di governo, trasformando un sistema parlamentare, in passato molto debole e diviso, in un sistema presidenziale simile a quelli statunitense o francese. Ma di eliminare molti dei contrappesi (i checks and balances che stanno alla base di ogni democrazia occidentale) creati per arginare lo strapotere dell’esecutivo.

È bene ricordare che, a nove mesi dal fallito golpe militare, sono stati rimossi e licenziati più di 4.000 giudici e pubblici ministeri e più di 7.000 professori universitari, mentre centinaia di giornalisti sono stati arrestati. Questi ultimi tengono buona compagnia alle decine di migliaia di civili e militari imprigionati in base alle leggi di emergenza. Fra di essi anche parlamentari delle forze di opposizioni (deboli e divise, come da tradizione), mentre non si contano le testate giornalistiche e i media chiusi d’imperio o minacciati.

La sproporzione, dal sapore nordcoreano, fra il tempo concesso sui canali televisivi alle ragioni del “sì” e a quelle del “no” è un altro indicatore di cosa ci possiamo aspettare da una nuova vittoria di Erdogan, il quale diverrebbe presidente e primo ministro, avrebbe il potere di nominare buona parte dei giudici e disporrebbe di un forte potere di veto nei confronti di un debolissimo potere legislativo. In più potrebbe rimanere potenzialmente al potere fino al 2029.

Nei sui 15 anni al potere, Erdogan, ha progressivamente smantellato con astuzia e abilità i pilastri del sistema politico voluto dal creatore della Turchia moderna, Kemal Mustafa Atatürk, in particolare quello del secolarismo dello Stato e dei legami forti con l‘Occidente. Paradossalmente, Erdogan si riavvicina al “padre della patria” solo nel condividere la stessa passione per l’autoritarismo. Comprensibile allora, con un Impero Ottomano travolto dalla sconfitta nella Prima guerra mondiale e con il Paese invaso da forze nemiche. Molto meno ora.

La definitiva trasformazione autoritaria della Turchia sarebbe il colpo mortale per le relazioni con l’Europa, da tempo arrivate al punto più basso da decenni (e questa crisi è usata strumentalmente da Erdogan per immaginare complotti stranieri contro il popolo turco). Non sarebbe, invece, un problema per le relazioni con Russia, Cina e Stati Uniti. La Cina guarda alla penisola anatolica come a uno hub naturale per i suoi progettati corridoi commerciali euroasiatici (la cosiddetta One Belt One Road), e notoriamente non si pone il problema della natura democratica dei Paesi con cui fa affari.

Per Putin, il fallito golpe è stato un utile cuneo da infilare fra Turchia e Nato, così come per riallacciare dei rapporti logorati dalle contrapposizioni geopolitiche sulla Siria. Ma quest’ultima, visto il recente bombardamento statunitense, potrebbe essere anche il terreno di un riavvicinamento geopolitico con gli Stati Uniti, il cui umorale presidente non sembra giudicare i propri colleghi sulla base dei loro convincimenti democratici.

La partita geopolitica regionale si lega così a quella costituzionale interna. Non dimentichiamoci infatti che Erdogan deve gestire i risultati finora fallimentari di una politica regionale troppo ambiziosa e aggressiva, che ha fatto della cacciata di Assad il proprio pivot geopolitico. Dovesse riuscire a ottenerlo - o perlomeno a strappare un compromesso onorevole - e dovesse vincere il referendum, allora la sua spericolata scommessa sarebbe stata vinta. E probabilmente persa per la democrazia turca.

* docente di Geopolitica alla facoltà di Scienze politiche e sociali, sede di Milano