di Giacomo Gerosa *

L’amazzonia brucia. Da tempo. E quest’estate tre volte più dell’anno scorso. Ma non si tratta di autocombustione dovuta al troppo caldo, al troppo secco o al riscaldamento climatico. Alle latitudini equatoriali infatti il clima, seppur caldo, è costantemente umido e piovoso a causa del sollevamento delle masse d’aria calda e alla condensazione del vapore che porta allo sviluppo di nuvolosità e piogge. Non per niente la foresta amazzonica è detta foresta pluviale. 

Si tratta quindi di veri e propri incendi volontari appiccati deliberatamente per far posto a nuovi pascoli, a nuovi campi, a nuove aree per lo sfruttamento minerario. Il Brasile è da tempo alla ricerca di risorse per spingere il proprio sviluppo economico e per alimentare la propria crescita demografica e, soprattutto con la nuova presidenza Bolsonaro, sostiene di avere tutto il diritto di farlo in Amazzonia senza alcun vincolo perché si tratta di territorio esclusivamente brasiliano. A prima vista si tratta di una posizione comprensibile. Tuttavia il governo brasiliano non considera l’unicità della foresta amazzonica e l’importanza per l’intera biosfera di quella che è un vero e proprio patrimonio mondiale dell’umanità che, come tale, andrebbe protetto e conservato.

La foresta amazzonica infatti è un vero e proprio scrigno di biodiversità: tra tutti gli ecosistemi terrestri è quello che racchiude il numero più alto di specie viventi, molte delle quali ancora sconosciute al punto che si scopre una nuova specie ogni due giorni. Forse tra queste nuove specie si cela quella dalla quale potremo ottenere il farmaco per curare qualche importante malattia: possiamo permetterci di perdere tale ricchezza?

L’Amazzonia, poi, è il più grande serbatoio di carbonio organico terrestre. Insieme alle foreste pluviali del Borneo e del Congo racchiude il 71% del carbonio organico di tutto il pianeta. Si tratta del carbonio che costituisce i tronchi e le radici dei vegetali, il corpo degli animali, dei funghi e dei microorganismi, la sostanza organica della lettiera e l’humus del suolo.  Gli incendi fanno in modo che questo carbonio si trasformi in CO2 e venga direttamente rilasciato in atmosfera. La foresta si trasforma quindi in un emettitore netto di anidride carbonica, il che va ad aggravare l’effetto serra e il riscaldamento globale. Un ettaro di foresta pluviale che brucia (pari ad un quadrato di 100 metri di lato) è in grado di rilasciare in atmosfera ben 850 tonnellate di CO2! Considerando che nel solo mese di luglio sono stati incendiati in Amazzonia 225.000 ettari di foresta pluviale, la quantità di CO2 emessa dalla foresta brasiliana in un mese è più di un terzo di quella che l’intera nazione italiana riversa in atmosfera in un anno. Si tratta dunque di una quantità ingente di gas climalteranti, oltre che di gas e particelle inquinanti, che andranno ad avere conseguenze globali.

È dunque anche per questo che dovremmo fare il massimo possibile per conservare questo importante ecosistema e offrire al Brasile e alle popolazioni locali un aiuto concreto per realizzare un modello di sviluppo che sia sostenibile, nel loro e nel nostro interesse. Purtroppo i pochi milioni di dollari stanziati dai Paesi del G7 per contribuire a tamponare l’emergenza incendi rischiano di essere solo dei pannicelli caldi. 

* docente di Ecofisiologia alla facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali dell’Università Cattolica, campus di Brescia