Una pandemia non l'aspettava sicuramente nessuno. Nemmeno, per quanto sempre pronti e educati, nelle aule e in tirocinio, a prepararsi a ogni “allerta”, i medici più giovani, particolarmente i neolaureati, in questa emergenza direttamente “in campo” senza dover sostenere l'esame di abilitazione. Abbiamo raccolto alcune delle loro storie


«Quando ho sentito parlare di emergenza sanitaria in Italia ho subito capito che si trattava di un serio problema che avrebbe presto coinvolto tutti i paesi a livello globale. Ero incredula dinanzi a quanto accadeva e sconcertata dai numeri dei contagi che non rallentavano e dei decessi che aumentavano in maniera galoppante. La mia vita professionale è cambiata radicalmente. Da dottoranda in microbiologia clinica e specialista pneumologa impegnata in attività ambulatoriale a pneumologa di reparto al Columbus Covid 2 Hospital». Anche Enrica Intini è un giovane medico che si è trovato dall’oggi al domani in prima linea, a causa dell’emergenza del Coronavirus. L’Unità operativa complessa in Pneumologia è, per vocazione, competenza e professionalità, sempre pronta in questo campo. Com’è cambiato l'approccio clinico e scientifico di fronte a questa particolare e sfidante pandemia?

«L’approccio clinico è molto differente. Si tratta di pazienti in regime di isolamento, quindi anche la semplice visita clinica di routine sembra difficile da praticare. La vestizione/svestizione segue una flow chart specifica, c’è necessità di sanificare ogni oggetto con cui si viene a contatto. Così anche un semplice elettrocardiogramma o un’emogasanalisi arteriosa che normalmente eseguiamo senza problemi diventano un’impresa. Per non dimenticare i parenti che sono a casa e che aspettano informazioni sui propri cari a cui non possono venire a far visita. Non sono loro che chiedono informazioni, come normalmente accade, ma dobbiamo essere noi a chiamare ciascun familiare per informarlo sulle condizioni cliniche del paziente. Per ogni piccolo movimento bisogna essere concentrati e nulla si deve dare per scontato». 

Vuole raccontarci un episodio, un dialogo, una fra le esperienze personali più significative di questi giorni? «È stata la mia prima notte in questo reparto. Poco dopo l’inizio del turno vengo contattata per un paziente che non rispondeva allo stimolo verbale. Abbiamo fatto il possibile ma purtroppo il paziente non ce l’ha fatta. Non è mai semplice comunicare una brutta notizia, ma in questo momento è più difficile di quanto si possa immaginare. Il mio pensiero va ai parenti dei pazienti che sono a casa in attesa di aggiornamenti sui propri cari. Il nostro paziente non aveva figli, a casa c’era sua moglie, a cui abbiamo comunicato la tragica notizia per telefono. È stato molto difficile per tutto il turno di guardia e per i giorni successivi distogliere il pensiero da questa triste storia e dallo stato d’animo della signora. Non un abbraccio, non un saluto, non una carezza o un gesto di conforto. Nulla è permesso».

Cosa sta imparando e cosa pensa che ci lascerà questa esperienza, come professionisti e come persone? «È un’esperienza a se stante, in cui credo che ognuno di noi parta dallo stesso punto. Specializzandi e specialisti, professori e non, non è una tra le classiche malattie che siamo abituati a curare o su cui abbiamo esperienza. A volte è difficile capire com’è possibile che un paziente, apparentemente stabile dal punto di vista clinico, abbia dei valori di ossigeno molto bassi o un quadro radiologico toracico compromesso. Indubbiamente ci lascerà tanta amarezza per tutti i pazienti e colleghi che purtroppo non ce l’hanno fatta. Come professionista, alla fine di questa brutta storia, sono sicura che avrò più coraggio di quanto non ne avessi già in partenza nell’affrontare spiacevoli situazioni e soprattutto tornerò alla mia vita pre-Covid 19 con un bagaglio culturale ulteriormente arricchito dallo studio e dal confronto con i miei cari colleghi». 


Quarto di una serie di articoli dedicati ai nostri medici in prima linea nella lotta al Coronavirus